Jaime Donato

Intervista a – Jaime Donato
scritta da Elena Basso, video realizzato da Luis Clarismino Alve Junior

È mattina quando arriva Jaime Donato. Viene direttamente dal turno di notte: lavora come operatore nel trasporto sanitario e in Cile si sta vivendo una nuova ondata di contagi da Covid-19. A Santiago le ambulanze sfrecciano di continuo, su una c’è anche Jaime. Lo sguardo è serio e l’atteggiamento guardingo. Negli anni lui e la sua famiglia hanno parlato molte volte con la stampa e non è sempre stato facile. Nel 1976 suo padre, che si chiamava con lui, è stato sequestrato e fatto sparire. In Cile erano gli anni della ferocissima dittatura di Augusto Pinochet e chiunque osasse opporsi al regime veniva detenuto illegalmente, torturato, ucciso e fatto sparire.

I desaparecidos sono stati migliaia e ottenere giustizia è, ancora, molto difficile. Jaime e la sua famiglia non si sono mai arresi e ancora oggi lottano per scoprire dove sia il padre. Si sono trovati molto spesso a combattere contro lo stigma di cui sono vittime in Cile i desaparecidos e i loro familiari, anche durante le interviste. Come spiega, quando ha parlato con un giornalista è stato spiacevole e doloroso. Fra insinuazioni sul fatto che non avessero abbastanza prove per dire che il padre sia stato vittima della dittatura e domande indelicate, Jaime si è trovato a rivivere il trauma di non essere creduto. Ma il caso del padre è noto nel Paese: Donato era una figura di spicco nel Partito Comunista, faceva parte del comitato centrale e si occupava dei sindacati. Poco a poco Jaime comincia a sentirsi a suo agio ed è pronto per l’intervista. Pelle olivastra, capelli corti , indossa occhiali da vista. Parla con un tono serio e profondo. “Mi chiamo Jaime Donato e ho 41 anni”. Si interrompe subito e spiega: “Mi sono sbagliato. Io ho 47 anni, 41 era l’età che aveva mio padre quando è scomparso”.

Cosa è successo a tuo padre?

Mio padre era un meccanico nel settore elettrico e ha ricoperto posizioni di rilievo nei sindacati dei lavoratori, prima come presidente della federazioni dei lavoratori dell’elettronica e poi come direttore del CUT (Centro unito dei lavoratori). È sempre stato un membro del Partito comunista cileno e nel 1976 faceva parte del comitato centrale. Nel maggio del 1976 la polizia segreta di Pinochet, la Dina, ha condotto un’operazione diventata tristemente nota per la sua ferocia e conosciuta come la “ratonera de calle Conferencia – la trappola per topi di via Conferencia”. Durante quest’operazione gli agenti hanno sequestrato e fatto sparire 6 persone, fra cui mio padre. Si sono infiltrati in una casa dove sapevano che si sarebbe tenuta una riunione del Partito comunista. In quegli anni la repressione era diretta soprattutto verso chi faceva parte del Partito e quello a cui apparteneva mio padre è stato il primo comitato centrale a scomparire. Nei giorni precedenti gli agenti hanno finto di essere elettricisti e spazzini e hanno sequestrato e torturato i proprietari dell’immobile fino a quando hanno rivelato la data dell’incontro. Il 4 maggio sono iniziati ad arrivare i membri del comitato: sparivano uno ad uno, mano a mano che entravano in casa. Il 5 maggio, alle 10 del mattino, è toccato a mio padre. Questo è tutto quello che sappiamo sulla sua morte, fino ad oggi non sappiamo ancora nulla di certo. Ci sono molte versioni su come lo hanno ucciso. L’ultima che ci è stata riferita è che lo hanno fatto sparire in mare.

 

Quanti anni avevi quando tuo padre è scomparso?

Avevo due anni.

Che cosa ha significato per te essere figlio di un desaparecido? 

La verità è che io non ricordo il suo volto, non so che tono avesse la sua voce, non so come camminasse, come vivesse. Mi hanno tolto da piccolo l’opportunità di avere un padre. Mi hanno tolto il diritto di crescere come un bambino normale all’interno della società. Abbiamo bussato a centinaia di porte cercando la verità per capire cosa fosse successo a mio padre. Dove è stato portato? Cosa gli è stato fatto? E soprattutto: perché? Perché privarlo della sua vita, della sua famiglia e dei suoi figli? Cosa ha fatto di così sbagliato per meritare di essere torturato e ucciso? Solamente perché era comunista e pensava diversamente? La verità è che me lo chiederò eternamente e non troverò mai una risposta. Io so dire “papà”, ma non ho idea di cosa significhi. Non lo sento, non so cosa voglia dire avere un padre. Era un mio diritto saperlo, ma mi è stato tolto dalla dittatura di Augusto Pinochet per il solo fatto che mio padre fosse un comunista. 

 

Che cosa è successo alla tua famiglia dopo che tuo padre è scomparso?
La sparizione di mio padre non è stata la fine ma l’inizio della sofferenza. Mia madre è rimasta sola con 5 figli. Ho 47 anni e solamente in due opportunità mi sono potuto riunire con tutti i miei fratelli nello stesso luogo. I miei fratelli maggiori, all’epoca ragazzi di 15 e 14 anni, sono dovuti andare in esilio nell’ex Unione Sovietica. Erano costantemente ricercati dalla Dina e mia madre li ha fatti andare via temendo che gli sarebbe toccata la stessa sorte di mio padre. La repressione era brutale in quegli anni e la nostra casa veniva sempre perquisita dagli agenti. Da quando sono piccolo ho memoria di essere sempre stato nel mezzo di azioni della polizia segreta di Pinochet. Mia madre si è occupata di cercare mio padre. I miei fratelli dovevano studiare e lavorare per mantenerci. Anche all’interno della famiglia alcuni ci hanno voltato le spalle: era troppo pericoloso essere un parente di Jaime Donato. Si correva il rischio di sparire, di essere torturato. Abbiamo sofferto la fame, il freddo e la paura. Vivere con il terrore quando hai solo 8,9 o 10 anni è una sensazione inspiegabile. 


Cosa significava essere parte di una famiglia comunista?
Per molto tempo ho provato angoscia, la paura era atroce. Quando i miei fratelli erano ricercati gli agenti mi aspettavano fuori dalla scuola elementare per chiedermi dove si nascondessero. Un giorno mi hanno fatto salire sopra un auto e hanno iniziato a interrogarmi. Ricordo che mi hanno dato uno schiaffo molto forte sul viso mentre ridevano e minacciavano di uccidermi. Ricordo le loro parole, fra le risate: “Questo idiota non serve a nulla, uccidilo”. Non so per quanto tempo sia rimasto in quell’auto. So solo che a un certo punto mi hanno buttato per strada. Sono arrivato a casa, ma non ricordo come. Ho abbracciato mia madre e ho pianto fra le sue braccia. Credo che sia passata una settimana prima che riuscissi a dirle quello che mi era successo. Avevo 8 anni. Da quel momento ho iniziato a camminare per strada e ad avere terrore, da allora sono seguito da uno psicologo. Ancora oggi durante la notte ho gli incubi: sogno sempre fatti accaduti alla mia famiglia durante gli anni della dittatura.

Che cosa è successo ai tuoi fratelli? 

Nel 1986, dieci anni dopo la scomparsa di mio padre, gli agenti di Pinochet hanno sequestrato mio fratello Nelson. Sono arrivati a casa nostra in piena notte. Io stavo dormendo insieme ad alcuni cugini che erano in visita e, per fortuna, non ci siamo svegliati. Mi hanno raccontato che il sequestro è stato molto violento: i militari picchiavano e puntavano i fucili contro tutti i membri della famiglia. Poi hanno preso mio fratello e lo hanno sequestrato in un centro clandestino in cui è stato torturato brutalmente. È sopravvissuto ed è stato portato in un carcere comune dove è diventato uno dei moltissimi prigionieri politici cileni. Quello è stato un altro periodo nero per la mia famiglia. 

 

In Cile c’è ancora uno stigma sui desaparecidos e i loro familiari?
Sì, senza dubbio. È uno stigma che la dittatura ha voluto imprimere nel popolo cileno. Quando accompagnavo mia madre a bussare a centinaia di porte per sapere dove fosse mio padre, le rispondevano sempre: “Tuo marito ti ha abbandonato, ci sono prove che abbia lasciato il Paese. I desaparecidos non esistono, sono una menzogna. In Cile non si tortura”. E questo veniva ripetuto ogni giorno: dai giornali, dai politici, dagli agenti. Si è fatta passare l’idea che i desaparecidos non esistessero: erano un’invenzione dei comunisti per macchiare la reputazione del governo. E quello stigma ancora oggi esiste, non è mai stato eliminato. Ho un collega di destra che mi dice sempre che in Cile ci sono ancora comunisti da uccidere e che il suo generale Pinochet purtroppo ha lasciato il lavoro incompiuto. Un altro collega mi ha detto che hanno fatto bene a ucciderli perché qualcosa di male avranno pur fatto. È molto difficile rispondere civilmente a queste persone perché quello che stanno dicendo è che la sparizione e la tortura che ha sofferto mio padre non esistono, che sono bugie. Ancora oggi in Cile c’è chi dice che i comunisti sono la peggiore razza esistente e che devono essere sterminati. Costa pensare che ci siano persone che, nonostante tutte le prove inconfutabili raccolte nel tempo, continuano a dire che è una menzogna. Per questo è importante raccontare ciò che è accaduto a mio padre: si deve sapere che in Cile ci sono state persone torturate, violentate e fatte sparire solamente per il fatto di pensare diversamente rispetto a un regime.