Alejandro Montiglio
Il Cile piomba nei suoi anni più duri, che finiscono quasi 17 anni dopo quell’undici di settembre. Il regime di Augusto Pinochet termina infatti solo nel 1990, dopo un plebiscito, in cui il 55% dei votanti rifiuta la sua guida. La transizione per tornare a quella tradizione democratica del Cile può ripartire, ed è ancora in atto, ma bisogna ancora chiudere parecchi conti rispetto al golpe e alla caduta di Allende, quel giorno fra i pochi che gli rimangono vicini fino all’ultimo c’è un giovane ragazzo di origini italiane. Alejandro Montiglio è suo figlio, nei pressi di Firenze oggi si occupa di promozione culturale. È alto e porta i capelli lunghi legati, ha lo sguardo fiero e l’eloquio profondo.
Qual è il tuo legame con questa storia?
Sono figlio di Anibal, nome di battaglia di Juan José Montiglio, detenido desaparecido. Non so se sapete cos’è il nome di battaglia. È il nome che riceveva ogni compagno nel momento di far parte della scorta o di ogni gruppo politico che faceva questo lavoro quasi da fuorilegge, tutti i compagni appartenenti alla sinistra americana avevano un altro nome che significava il rapporto con un altro mondo, il mondo del socialismo. Il mondo che volevano costruire.
Sei tornato dove è iniziata la storia della tua famiglia.
Sì, sono venuto in Italia per il processo Condor. Visto che mi trovavo qui, ho voluto ricostruire la traccia, l’albero genealogico. Così sono andato a Nord, ad Asti, nel Monferrato, dove c’è un mausoleo, c’è un paesino con il mio stesso cognome. Penso nasca tutto da lì. Ho aperto tutti i libri all’ufficio anagrafico, al cimitero e anche nella scuola più grande che esiste lì e ho trovato preti, giudici, un altro in camicia nera. C’è di tutto. Eppoi questo bisnonno che è una storia lunga, molto interessante. Lui lascia la casa dei genitori e se ne va a studiare a Torino e al terzo anno la sorella racconta al babbo che era il gerarca, un giudice, molto rispettato, molto temuto che questo fratello non stava studiando legge, ma medicina. Lo cacciano via, viene diseredato, viene buttato. C’è un periodo che non sono ancora riuscito a ricostruire di due anni, conosce sua moglie, fa un breve percorso nella Liguria, poi America per poi tornare indietro. Nasce mio nonno, mio nonno che mio babbo quasi non lo conosce, mio nonno consanguineo morì quando mio babbo aveva sette anni. Italiano.
Quindi tuo padre era un cileno di padre piemontese.
Sì, mio babbo è nato a Sud, nel confine Sud del Cile, dove iniziano i fiordi, quella zona si chiama Seno de Reloncaví, vicino a Puerto Montt. Nasce da una donna mapuche, indigena, viene rapito quando aveva due anni dal proprio babbo, che se lo porta al confine Nord dove cresce, finisce le medie ad Arica che è una città a Nord. Lì conosce una ragazza, da questa relazione nasce la mia sorella maggiore nel ’67. Io la conosco, l’ho conosciuta dopo, 10 anni fa. Poi torna a Sud, Santiago, c’era un elenco in zona, lui era numero tre, la sua compagna dell’epoca era numero uno e poi c’era l’amico che io ho conosciuto, grande amico di vita di quel periodo e poi il mio babbo, numero tre. Avevano il punteggio massimo, potevano scegliere qualunque università. Scelgono l’Università del Cile, l’università più prestigiosa, laica, che ha una storia molto interessante. È lì che nascono un gruppo importante di presidenti. C’è una storia politica, repubblicana molto interessante nell’università che hanno frequentato.
Siamo negli anni della contestazione giovanile, che esperienza è stata quella universitaria?
Aveva fatto il servizio militare, e conosce un gruppo – che diventeranno compagni – del partito socialista. Fa parte del partito socialista, man mano cresce come militante, viene assunto in altri compiti, ad esempio fa parte del Eln (esercito di liberazione nazionale, ndr) che è un gruppo che nasce nel Cile per accompagnare la guerriglia del Che. Per poi passare direttamente al GAP. Il GAP all’inizio era un gruppo di compagni che avevano istruzione zero, pari a zero. Ma avevano un cuore enorme e due coglioni enormi, avevano un coraggio infinito, ma non avevano la formazione politica e militare.
Affianco al presidente Allende quindi nasce Anibal.
Sì, viene scelto per fare questo compito con altri cinque compagni. Poi diventa parte del vertice. Capo del gruppo operativo. Martedì 11settembre è lui che comanda la difesa della Moneda. Quel martedì, lui ha un ruolo importantissimo. È lui che dirige le operazioni: “Su questo balconcino metti una mitragliatrice, qui due cecchini, proteggi il presidente”, eccetera…
Cosa gli succede quel giorno?
Era nel palazzo della Moneda, la mattina viene circondata dalla fanteria, poi dai carrarmati, poi viene bombardata, poi entra l’esercito e lo portan via. Viene torturato due giorni in una caserma vicina Santiago, in un terreno che appartiene all’esercito dove viene fucilato senza un giudizio nemmeno sommario, buttato in una fossa profonda 18 metri per poi lanciare delle granate, gli spezzano il corpo, non c’è uno scheletro. Per questo il processo va avanti con due frammenti di ossa.
Quand’è che scopri questa storia, quando vieni a sapere chi era davvero tuo padre?
Anno 1985, avevo 16 anni, a casa non si parlava di politica, un giorno finita la scuola, vado in centro dove c’era un corteo, poi arrivano i carabinieri, lacrimogeni, colpi, bastonate e arrivo a casa di mia zia. Questa mi fa delle domande, mi chiede perché sono così sudato, sporco, perché piangevo. Il fumo era irritante e viene una bugia dopo l’altra, che andavo di corsa, che faceva troppo caldo, ma alla fine mi dice: “Non ce la faccio, te lo devo dire, succede questo… questo… questo”. In percentuale, il 90% era vero, mancava qualcosina, o aggiungeva o riempiva il vuoto con cose che non corrispondevano proprio alla storia vera. Ma la storia è che era un desaparecido militante, un uomo di sinistra, vicino al presidente con cui aveva un rapporto personale, era tutto vero.
Prima non hai mai saputo niente di tutto questo?
No, succede da un giorno all’altro, di punto in bianco scopro questa cosa. Poi inizio a riscoprire il mio passato, ad esempio che io non avevo mai pianto, io non avevo cercato una lapide, non avevo mai ricostruito quel soggetto. Mi bastava quella presenza di mio nonno e le bugie che aveva creato. Questa verità mi spinge a far parte di un progetto, ma non è nata questa scoperta con una chiacchiera a casa ben pianificata, ma in questo modo improvvisato che ti ho raccontato.
Qual è il tuo percorso da quel momento in poi?
Io facevo parte di una sinistra ignorante, che andava contro, contro il sistema, ma che era vuota, non aveva ideologia. Non c’era militanza, non c’era una struttura. È lì che invece nacque l’idea, il bisogno, di militare, di conoscere una esperienza organica. All’Università nasce tutto anche per me, è un momento fondamentale. Iniziai a fare mille cose come studente: lavorare nei quartieri popolari, far percorsi lì nel mondo proletario… andare a vivere, non è quello che fanno i volontari… di andare a lavorare il fine settimana, quello che fa la Caritas. Ci vuole un altro soggetto per queste cose, non io.
Come ha cambiato la tua vita questa storia?
Ho cambiato vita. Il mondo che sognavo non esiste e forse non è mai esistito, ma continuo a pensare che si può costruire. La mia compagna all’epoca la pensava uguale, abbiamo cresciuto la mia figliola in quel mondo ed è quello che continuo a dire, ad esempio nei laboratori, quando lavoro a scuola, continuo a pensare che quel mondo è possibile. Non ci vuole programma, il metodo, il modello… ma ci vogliono uomini onesti e coraggiosi, puoi avere davanti in cartaceo una cosa splendida ma non serve, la facciamo noi… la facciamo noi insieme. Noi cileni, noi italiani, nepalesi fa lo stesso. Quel soggetto politico, del quale faceva parte mio babbo… lui fece una cosa sola: abbracciò il socialismo, ed era l’unica cosa che un uomo onesto poteva fare all’epoca, ma la differenza con gli altri è che l’ha fatto fino alle ultime conseguenze. Altri hanno fatto questo giro, fanno parte del gruppo che ora si trova al potere: hanno tradito, hanno negoziato e fatto altre cose. Mio babbo no, mio babbo quella mattina doveva prendere una decisione e ha preso la decisione giusta, secondo me.
Non parli mai di vittime, non parli mai al passato.
Certamente. Quello è il linguaggio della sconfitta, il linguaggio della morte, il linguaggio della chiusura, il linguaggio della memoria pietra, quella del museo, quella dell’archivio, quella del racconto… che si può riassumere “in dobbiamo girar pagina”. Dobbiamo raccontar questo quasi come una fiaba, quasi come una storia tremenda, terribile, dalla quale non si torna indietro. Invece no, penso che lui sia vivo, più vivo di tutti noi, che siamo ora insieme per raccontare quella generazione meravigliosa, potente, di una potenza che va avanti, nei decenni. Continueremo a ricordarli, ma ricordarli vivamente, non soltanto nel cartaceo, nel busto, nella targa. Possiamo rinominare le strade e fare tutta questa scena holliwoodiana, ma secondo me non è quello il vero scopo di questa storia.
Qual è allora?
Loro non volevano fare questo, volevano trasformare l’uomo. L’uomo nuovo è una cosa meravigliosa, non è poesia e non è nemmeno quella politica dura, non è il testo. È pensare e agire veramente in modo diverso, come società, dove uomo e donna camminano insieme, dove c’è la parità, dove c’è l’uguaglianza. Quella trasformazione non è strutturale, puoi creare il ministero della donna… puoi creare le leggi… le quote rosa… eccetera… e così con il mondo indigeno… tutte le minoranze… non è quello… è un insieme di cose e quell’insieme di cose all’epoca era un progetto continentale, che si doveva bloccare e si blocca con le armi e si blocca con lo sciopero generale, con la bugia, con la presenza potentissima dei media.
Cosa ti aspetti dai processi, quali verità ancora ci sono da ricercare?
Il senato statunitense ha riconosciuto la presenza degli Stati Uniti in questa storia, poi ci sono interviste, tantissime, alla CIA, alla FBI: i nomi si conoscono, ma anche il nome di civili, per quello che si chiama dittatura civico-militare. Il processo finora ha colpito nel mondo militare, ma manca quest’altra (civico) che non è la società civile, è il mondo degli imprenditori, delle grandi aziende e dobbiamo tornare lì. C’è un legame anche con l’Europa, non soltanto con l’Italia, anche con la Francia, con il Vaticano, cioè è un mostro che è nato con la scuola Panama, con la strategia delle Americhe. Non è nata da un giorno all’altro, è dagli anni 50 che va costruendosi, l’hanno fatto bene. Il nemico ha già pensato al 2020 al 2030, noi artigianalmente stiamo pensando a cosa fare il fine settimana, mentre loro lavorano seriamente, lo devo dire: ci hanno colpito, ma penso che non siamo stati sconfitti. Si continua a lottare.
Come si trasforma il lutto in lotta?
Io parlerei di una diade. Penso che una a un certo punto finisca, c’è una chiusura, una chiusura evidente con il ritrovamento del corpo, la bara, la cerimonia. L’altro continuerà, continuerà nei cortei, continuerà con i nostri compagni con la fotografia appesa al collo, con la bandiera anche impugnata dai giovani che non appartengono a quella generazione, quelli nati negli anni Novanta e nel XXI secolo. Quel lutto è un lutto-lotta, continua e continuerà.