Aurora Meloni
Avevano 22 anni, origini italiane e vivevano a Montevideo, in Uruguay, quando la situazione intorno a loro cambiò e cominciarono a temere per la propria vita. Erano i primi anni ’70 e uno dopo l’altro i Paesi del continente sudamericano stavano cadendo sotto sanguinosi colpi di Stato. Con l’insorgere delle dittature si apriva una vera e propria caccia all’uomo: gli oppositori dovevano essere catturati, torturati, uccisi e – nella maggior parte dei casi – fatti sparire. Aurora Meloni e Daniel Banfi decisero di trasferirsi a Buenos Aires con le loro due figlie per scappare dalla crescente repressione uruguaiana.
Poco dopo il 27 giugno del 1973 a Montevideo Juan María Bordaberry con un golpe instaurò la dittatura militare e la capitale argentina si riempì di cittadini uruguaiani. Per catturare gli esuli politici che, come Daniel e Aurora, cercavano rifugio in altri Paesi i servizi di intelligence di Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia, Brasile, Ecuador e Perù strinsero un patto segreto: l’Operazione Condor. Il Condor iniziò ufficialmente nel novembre del 1975, ma i Paesi coinvolti cominciarono a cooperare per la cattura degli esiliati ben prima, come dimostra il caso di Daniel Banfi.
Il 13 settembre del 1974 Daniel fu catturato in piena notte a Buenos Aires e solo un mese dopo fu ritrovato il suo cadavere. Sua moglie Aurora in tutti questi anni non ha mai smesso di lottare per ottenere giustizia per lui. Si è costituita parte civile nel processo Condor – iniziato a Roma nel 2015 e conclusosi lo scorso luglio con la condanna storica di 24 ergastoli – e per l’omicidio di Daniel è stato condannato Juan Carlos Blanco, ex ministro degli Esteri uruguaiano.
Com’era la vostra vita in Argentina in quegli anni?
Noi vivevamo e lavoravamo con due bambine piccole. La situazione era rischiosa, ma non pensavamo che il pericolo fosse imminente e soprattutto che potesse colpire noi. Già prima della morte di Perón, avvenuta nel luglio del 1974, qualche segnale di violenza c’era, ma era rivolta soprattutto agli argentini per creare timore nella popolazione. Non avevamo sentore di quello che stava per succedere.
Cosa è successo a Daniel?
Quello di mio marito è stato uno dei primi sequestri eseguiti con quel modus operandi che è poi diventato frequente negli anni successivi. Il 13 settembre del 1974 alle 4 del mattino una squadra di militari è arrivata a casa nostra. In quei giorni stavamo ospitando due compagni in attesa di un visto per la Francia, Rivera Moreno e Luis Latrónica. Questo gruppo di uomini pesantemente armati è arrivato all’improvviso, con molta violenza hanno forzato la porta e sono entrati nel nostro appartamento. Ci siamo subito resi conto che conoscevamo il commissario che dirigeva il gruppo: era uruguaiano e si chiamava Hector Campos Hermida. Quella notte si sono portati via mio marito, Luis Latrónica e Rivera Moreno. Per fortuna le mie bambine dormivano e non hanno assistito.
Cosa hai fatto dopo quella notte?
Ovviamente non sapevo cosa fare, come muovermi in quella situazione. E così mi sono rivolta al senatore uruguaiano Zelmar Michelini, una persona che stimo profondamente. Anche lui si trovava in esilio a Buenos Aires e sono andata a chiedergli aiuto; mi ha ascoltata e guidata nella ricerca. Devi pensare che è stato il primo sequestro di quel genere e quindi nessuno prima di me aveva ancora intrapreso quel percorso, fatto di tribunali, commissariati, richieste di habeas corpus, che poi hanno fatto migliaia di madri e nonne alla ricerca dei loro familiari scomparsi. Non stavo cercando solo Daniel, perché ho scoperto che la notte dopo lo stesso operativo ha sequestrato altri due uruguaiani: Gullermo Jabif e Nicasio Romero, impiegato nel negozio di dischi dove aveva lavorato anche mio marito. E quindi cercavo 5 giovani uomini scomparsi.
Cosa hai fatto per cercarli?
Sono andata alla polizia argentina, all’ambasciata uruguaiana, nei commissariati e negli ospedali. Ho fatto diverse richieste di hapeas corpus, avendo solo esiti negativi. Nel frattempo sono accaduti fatti molto gravi, fra cui l’uccisione del generale Prats, comandante dell’esercito per il governo Allende. Prats è stato assassinato con un’autobomba insieme a sua moglie a Buenos Aires. Dopo questi fatti ho capito che difficilmente la ricerca di mio marito e dei suoi compagni avrebbe avuto un buon esito, ma ho continuato a cercarli sempre con la speranza di ritrovarli vivi.
Cosa è accaduto in seguito?
Dopo 23 giorni due degli uomini sequestrati, Romero e Moreno, sono stati liberati. Ci siamo incontrati e il loro racconto è stato terribile. Mi hanno spiegato che quelle erano state settimane di torture e di fame: torture gratuite, eseguite senza nessuno scopo, senza neanche cercare di estorcere loro informazioni. Così ho deciso di rivolgermi all’Unhcr per fare in modo che potessero rifugiarsi in un altro Paese. Hanno chiesto asilo all’Italia, ma la risposta è stata «abbiamo già abbastanza terroristi e non ne vogliamo altri». Fortunatamente la Svezia ha accolto la loro richiesta. Loro sono partiti e io ho continuato la mia ricerca.
Che cosa hai trovato?
Daniel non è un desaparecido, perché grazie alla denuncia di un contadino abbiamo trovato il suo cadavere, quello di Latronica e di Jabif. Insieme al cognato di Jabif e al sacerdote che aveva sposato me e Daniel siamo andati a 150 km da Buenos Aires, siamo andati alla polizia e loro ci hanno portato all’obitorio. Mi permetto di non raccontare cosa ho trovato, delle condizioni in cui erano i loro corpi. Molti anni dopo mi hanno dato un dossier con la versione della polizia e magistratura argentina in cui si diceva che erano stati chiaramente assassinati, dato che sono morti per 36 colpi di arma da fuoco.
Come sei riuscita a ottenere giustizia per l’uccisione di Daniel?
Nel ’99 con alcuni familiari di altre vittime italo-uruguaiane abbiamo fatto una riunione a Montevideo e abbiamo deciso di tentare di istituire un processo in Italia, dato che c’erano dei precedenti. Abbiamo deciso di fare una denuncia a Roma dove abbiamo avuto la fortuna di trovare un pubblico ministero, Giancarlo Capaldo, che non solo ci ha ascoltato ma ha deciso che sarebbe arrivato fino in fondo e che questo processo sarebbe stato istituito. Così è cominciata la strada che ci ha portato all’istituzione del processo Condor, da cui ho avuto quello che ho aspettato per 45 anni: giustizia.
La sentenza del processo Condor è stata importante?
Importantissima, perché non è possibile che continuino a morire queste madri, queste nonne, queste famiglie senza sapere nulla. Ho sempre detto che nonostante la tragedia della mia storia noi abbiamo avuto la “fortuna” di poter seppellire i nostri cari e le mamme di questi uomini hanno avuto un posto dove portare un fiore quando vogliono. E questo è fondamentale.