David Munoz Gutierrez

Intervista a – David Munoz Gutierrez
intervista scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Marco Mastrandrea

David Munoz Gutierrez vive e lavora a Bologna da quando è riuscito a raggiungere l’Italia come esule cileno. È stato un militante e dirigente del Partito socialista cileno nella regione rurale di Temuco, dove si è occupato della sindacalizzazione dei contadini come funzionario della Unidad Popular. L’11 settembre 1973, durante il colpo di Stato, si trovava a Santiago del Cile. Ricercato dai golpisti nella sua regione, rimase nascosto a Santiago per un mese prima di arrivare all’ambasciata italiana e rimanerci per quasi un anno prima di poter lasciare il paese e raggiungere l’Italia.

 

 

Ho cominciato la mia attività politica più o meno a 14 anni, avevamo un candidato della sinistra cilena che girava tutto il Cile in un treno chiamato il Treno della Vittoria, si chiamava Salvador Allende e noi, anche i piccoli, andavamo alla stazione a vedere e sentire il suo discorso insieme ai grandi. Come studente io arrivai a fare il dirigente Provinciale degli studenti dei licei e poi presidente della mia scuola. Eravamo circa 400, è un comune piccolo, agricolo, e anche lì abbiamo fatto delle battaglie importanti per noi, per esempio conquistare la colazione per tutti: perché c’erano tanti ragazzi che venivano dalle campagne, conquistare il pranzo per tutti, anche quelli che venivano da luoghi lontani.

 

Come ha vissuto il giorno del Golpe?

L’11 settembre io ero a Santiago, era successo che nella provincia ero cresciuto anche come incarichi, sono passato da segretario provinciale dei giovani a segretario provinciale degli adulti del mio partito, avevo 23 anni. Venivano le elezioni del marzo ’73, le politiche, e allora il segretario provinciale del partito ha dovuto rinunciare per incompatibilità, perché fu nominato candidato e allora il comitato provinciale dopo tre settimane o 4 settimane senza segretario disse: “Lo facciamo fare al ragazzo, facciamo fare il segretario al ragazzo”. Io ero il più giovane, siamo arrivati a settembre a Santiago perché il partito aveva chiamato una riunione nazionale, perché precedentemente il 19 giugno c’era stato un tentativo di colpo di stato, e allora io essendo il segretario provinciale sono dovuto andare e questa riunione che è finita domenica 9 con una grande manifestazione del Partito Socialista. Quando si veniva dal Sud a Santiago chiaramente si portavano un sacco di cose da fare: nei ministeri, nelle direzioni generali, etc… quello lo dovevamo fare lunedì, martedì e mercoledì. Eravamo in quattro, lunedì abbiamo fatto alcune di queste cose e si notava molto nervosismo, martedì ci alziamo con i carri armati per strada e quindi tutti con le radioline aspettando di capire, abbiamo girato un altro po’ e a un certo punto abbiamo sentito alla radio il discorso di Allende, due tre volte prima che cominciò il bombardamento, che abbiamo visto a 800 metri dal Palazzo di Governo. Poi è venuto il bando militare che diceva a tutti che dovevano essere fuori dalle strade alle 3 del pomeriggio e quindi noi siamo tornati all’albergo dove dormivamo.

 

Cosa avete fatto nei giorni successivi?

La notte fra il 12 e il 13 settembre sono entrati 40 militari nell’albergo, sostenendo che dalle finestre di quell’albergo avevano sparato contro i soldati della patria. Ci hanno messo tutti al muro, ho ricevuto due tre colpi col calcio del fucile nella schiena per spingermi contro il muro, poi hanno interrogato tutti. Ricordo che c’era un gruppetto di 8-10 persone in un angolo, erano lavoratori che venivano da Conception, avevano un congresso del loro sindacato a Santiago in quei giorni, erano della linea bianca, costruivano frigoriferi, stufe, cucine. Il soldato che comandava disse: “Finalmente abbiamo trovato un gruppo di comunisti”. Ci hanno rinchiuso ognuno nella sua stanza e a un certo punto abbiamo sentito che se ne sono andati, portandosi via questo gruppetto di lavoratori. Non abbiamo più saputo nulla di loro.  Ai telefoni del partito non rispondeva nessuno, noi quattro rimasti ci siamo scambiati i telefoni dei parenti di ognuno ed eravamo soli da quel momento, l’11 settembre è stato davvero drammatico in questo senso. 

 

Cosa ha fatto da quel momento?

Sono andato da uno zio, fratello di mio padre: “Sei in condizioni di tenermi in casa o no?” “Proviamo”, mi disse, e così ho passato diversi giorni lì, lui era nervosissimo quando tornava la sera, c’era stato perfino un terremoto in quei giorni. Però non mi ha mai cacciato. Un giorno poi, il 9 di ottobre, pioveva quel giorno maledetto, esco come ogni mattina e riesco sempre a trovare qualche compagno per Santiago, ognuno cercando di nascondersi, di scappare. Salgo su un autobus e dopo un po’ vedo che uno che mi fissa. Allora scendo dall’autobus e lui fa lo stesso. Torno a casa e verso l’una, quando stavo per cominciare a mangiare la frutta, suona il campanello. Allora mi seguivano proprio, penso. Invece era una monaca. Mia zia aprì la porta e io sentii: “Siamo venuti a prendere David Munoz”. Dice di essere una religiosa, fa vedere la croce a mia zia, allora esco anche io e mi dice: “Dobbiamo andar via subito, c’è una collega che ci aspetta con un camioncino”. Dico: “Aspetta, devo prendere le mie cose”, “no no no, se ci sarà la possibilità verremo a prendertele noi dopo, adesso dobbiamo andare all’ambasciata italiana”. Allora mi infilano in mezzo alle ceste del pane e della verdura e a un certo punto, la monaca vestita da monaca ci ha detto: “Adesso scendete, camminate come se foste due amici e a un certo punto ti aiuterà a saltare il muro”. Scavalco e quando sto per scendere in quel momento quando mi dice: “Io sono Valeria, salutami gli altri che ho aiutato”. E sono caduto dall’altra parte del giardino, nell’Ambasciata italiana.

 

Quanto tempo è rimasto nell’ambasciata?

Lì sono stato dal 9 ottobre al 20 di agosto del ’74, perché la dittatura mi considerava molto pericoloso e non mi dava il lasciapassare. Gli italiani chiedevano di portarmi qua e rispondevamo: “Lui no”. Siamo stati otto, ci chiamavano “diferidos” e non ci davano il lasciapassare. C’è stato un momento all’ambasciata in cui eravamo solo noi otto, non ci vedevamo fra noi, era un edificio di tre piani più il sotteranneo, con una sala grande di fronte alla piscina dove c’erano una sessantina di uomini celibi, un’altra stanza in cui stavano le donne, nel sotterraneo c’erano diverse famiglie. Dopo che siamo rimasti solo noi otto c’è stata una recrudescenza della repressione e sono arrivate altre 150 persone. 

 

Com’è riuscito ad arrivare in Italia?

C’era tutta una campagna su questi otto sequestrati nell’ambasciata italiana, allora hanno preso uno del gruppo nuovo per far vedere che non eravamo in otto e ci hanno fatto uscire, alcuni sono andati in Danimarca, altri in Canada, uno è ancora a Modena, è venuto via con me: siamo arrivati il 22 di agosto, con un caldo incredibile. Ero vestito pesante, nessuno me l’aveva detto e ricordo che siamo stati ricevuti bene: c’era gente che a momenti sembrava che il golpe fosse avvenuto in Italia per quanto sentivano quello che era successo.