Eva Lerouc
Era un pomeriggio di ottobre del 1976, Manuel e Ana Saroff si trovavano nella loro abitazione in Argentina, nella città di Mendoza quando sentirono il pianto di un bambino. Corsero fuori: sulla loro veranda c’era un neonato. Era il nipote Fernando. Da qualche mese i genitori del bambino, Alfredo e Marta Lerouc, vivevano in clandestinità a San Juan: erano militanti Montoneros – organizzazione guerrigliera d’opposizione alla dittatura – e sapevano di essere in pericolo. Manuel e Ana non potevano immaginare che qualche giorno prima Alfredo era stato ucciso per strada dai militari della dittatura di Videla e che Marta era detenuta. Di Marta da allora non si seppe più nulla e ancora oggi continua a essere desaparecida.
Eva Lerouc nel 1976 aveva due anni e quel pomeriggio era a casa con i suoi nonni Manuel e Ana quando hanno ritrovato il suo fratellino nella veranda. Da allora non ha mai smesso di chiedere giustizia per i genitori e lo scorso novembre è volata a Roma per deporre contro l’ex tenente italoargentino Carlos Malatto, che da oltre 10 anni vive nel nostro Paese. Malatto faceva parte del Rim22, uno dei più sanguinari gruppi militari della dittatura, ed è accusato del sequestro e sparizione di centinaia di oppositori politici. Dopo essere fuggito dall’Argentina per scappare dal processo aperto contro di lui, l’Italia ha rifiutato la richiesta di estradizione nel 2013 ma il 26 maggio 2020 è stato firmato il documento per autorizzare un processo a suo carico in Italia.
Come è iniziata la militanza dei tuoi genitori?
Hanno iniziato nella Gioventù Peronista nel 1970, mia mamma era maestra e nel frattempo ha cominciato a studiare Scienze politiche all’università. Era al terzo anno di Scienze politiche quando è stata sequestrata dai militari. Erano due giovani, mio papà aveva finito la scuola e aveva una copisteria dove stampavano tutto il materiale dell’organizzazione politica a cui appartenevano. Con l’arrivo della dittatura una buona parte della gioventù peronista – fra cui i miei genitori – si armarono e diventarono parte dei Montoneros. Le due organizzazioni che sono state perseguitate di più durante la dittatura sono state i Montoneros e l’ERP (Ejercito Rivolucionario del Pueblo). Cominciò la caccia a chi era considerato “sovversivo”, e a quei tempi lo era chiunque fosse ritenuto un “nemico interno” dello Stato. Se si legge la lista dei desaparecidos in Argentina e si presta attenzione alla professione o al rango si nota che la maggior parte erano giovani, studenti, docenti, avvocati, appartenenti al movimento operaio e sindacalisti.
Decisero di darsi alla clandestinità?
Viviamo in un paese piccolo e ancora oggi ci conosciamo tutti, immaginati com’era 40 anni fa. Per questo motivo i miei genitori erano molto conosciuti nella zona per la loro militanza. Quindi per una questione di sicurezza decisero di andare a San Juan, vicino a Mendoza, vivendo in clandestinità. Lì continuarono a militare proteggendo se stessi.
Quando sono stati sequestrati?
Nel settembre 1976 si trovavano a San Juan quando c’è stata una retata, una cosiddetta cita cantada. Si andava a un appuntamento con alcuni compagni di militanza ma a quell’incontro si presentavo anche dei militari per catturare chiunque si trovasse lì. Durante una di queste citas cantadas mio padre è stato fucilato insieme ad altri compagni che stavano andando all’appuntamento. Li hanno assassinati e poi hanno sistemato la scena per far finta che avessero avuto uno scontro con la guerriglia. Quando i miei nonni sono andati a cercare il corpo di mio padre hanno scoperto che nel certificato di morte era stata scritta una dicitura come se mio padre fosse morto di infarto. Ma l’infarto con dei proiettili in corpo è un evento piuttosto strano. È così che insabbiavano le uccisioni dei militanti.
Come avete scoperto che tuo padre fosse morto?
L’esercito ha emesso un comunicato con cui riportavano che c’era stato uno scontro con i guerriglieri descrivendo le caratteristiche fisiche dei caduti. Un vicino di casa dei miei nonni lo ha letto e li ha avvisati. Così hanno saputo della morte di mio padre. Poco dopo sono andati a San Juan e sono riusciti a recuperare il suo corpo. Non sapevamo nulla di mia madre e di mio fratello che aveva appena sette mesi e viveva con loro. Credevamo che avessero avuto la possibilità di scappare e che fossero vivi, ma dieci giorni dopo l’uccisione di mio padre i miei nonni hanno trovato mio fratello abbandonato davanti alla porta.
Cosa sapete di quello che è accaduto a tua madre?
Considerando che fra i militari c’è un patto di silenzio e che nessuno di loro parla, è quasi impossibile avere informazioni. Durante un processo per i crimini compiuti durante la dittatura un testimone ha dichiarato di essere stato sequestrato in un centro clandestino a Mendoza insieme a due ragazze molto giovani, entrambe maestre. Una era mia madre: l’ha riconosciuta da una foto che abbiamo portato in Tribunale. L’altra sequestrata si chiamava Liliana Errero, anche lei desaparecida. Tutto quello che sappiamo è che mia madre è stata vista l’ultima volta in vita in questo centro clandestino di Mendoza tre mesi dopo l’assassinio di mio padre, nel dicembre del ’76. Però com’è arrivata mia madre in quel centro clandestino? E mio fratello davanti alla porta di casa? Non lo sappiamo. Inoltre è strano che mio fratello ci sia stato restituito considerando che in quegli anni i militari hanno rubato centinaia di bambini ai desaparecidos.
Quanti anni avevi quando è successo?
Avevo due anni. Quando i miei genitori hanno iniziato a vivere in clandestinità hanno portato con loro mio fratello perché era appena nato. Ovviamente in quella situazione non sarebbe stato facile vivere con due bambini. Mio padre e mio nonno si incontravano piuttosto spesso in luoghi sicuri, in un bar o in una stazione dei bus, sempre prestando molta attenzione per non farsi scoprire. I neonati cambiano molto da un mese all’altro e i miei genitori volevano essere sicuri che i nonni sarebbero sempre stati in grado di riconoscerlo. Per questo agli incontri con mio nonno mio padre portava sempre mio fratello e glielo faceva vedere.
Com’è stato per te essere figlia di una desaparecida e di una persona uccisa durante la dittatura?
Fino all’arrivo della democrazia è stato un vero incubo per tutta la famiglia. Credo che mia nonna sia sopravvissuta solo perché aveva me e mio fratello. Se non fosse stato per questo sarebbe impazzita. San Juan è un centro molto piccolo e in Argentina abbiamo un proverbio che recita: “pueblo pequeño, infierno grande” e rappresenta perfettamente la sensazione con cui sono cresciuta. Fino a quando non ho avuto gli strumenti per poter discutere e difendermi quando entravo in una stanza mi sentivo sempre come un “paria”. Nessuno mi voleva stare accanto, come se avessi la lebbra. Per molti anni i miei genitori sono stati abbandonati, come se non fossero mai esistiti. Nessuno li aveva conosciuti, nessuno era stato un loro amico o compagno. Una gran parte della mia famiglia ha smesso di parlarci. Poi quando sono cominciati i processi ai militari molte persone si sono riavvicinate.
Perché è importante continuare a chiedere giustizia per i tuoi genitori?
Non ci è mai interessato farci giustizia da soli. Nessun familiare o nessuna vittima lo hai mai fatto. Nessuno di noi ha mai desiderato fare ai militari ciò che loro hanno fatto alle vittime in quei campi di tortura. Invece molti militari continuano a pensare che sia questo che vogliano i sopravvissuti e i familiari. Ma noi non abbiamo sete di vendetta, vogliamo solo che sia fatta giustizia. Molte persone non lo capiscono, ma questa è l’unica cosa che può riparare all’enorme danno che ci è stato fatto. Vogliamo un processo legale in cui gli imputati si possano difendere. I miei genitori non hanno avuto diritto a un processo, non sono stati imputati di crimini e non c’è una condanna. Erano colpevoli solo di essere oppositori e militanti politici. Ciò che chiediamo è nel rispetto della legge, né più né meno. Però per i militari della dittatura, se riconosciuti colpevoli, pretendiamo il carcere comune perché in Argentina si cerca di descriverli come poveri vecchietti che chiedono solo di essere lasciati tranquilli. Però questi “poveri vecchietti” hanno torturato, ucciso e fatto sparire oltre 30mila persone e questo non può essere dimenticato. Sono delinquenti comuni, hanno ucciso, fatto sparire, rubato, torturato e stuprato. Non contenti di tutto ciò, si sono appropriati dei figli di chi uccidevano come se fossero un bottino di guerra. Come se non gli fosse bastato rubare tutte le proprietà a chi veniva sequestrato, pratica che era una prassi con i detenuti politici. Queste persone non possono rimanere impunite. Il dolore che abbiamo vissuto è così enorme e profondo che non si può superare: a un trauma del genere si può solo sopravvivere. Noi possiamo andare avanti solo sapendo che ci ha causato questa sofferenza venga condannato.
Come ti fa sentire il fatto che Malatto, che è coinvolto nel delitto dei tuoi genitori, viva impunemente in Italia?
Si sente un sentimento di impotenza. Fa male che un tipo come Malatto sia libero e che goda di una vita che il cittadino comune italiano non si può permettere. Perché credo che l’italiano comune non viva in un residence esclusivo come quello di Portorosa (in provincia di Messina) dove Malatto risiede da anni. È come se Hitler avesse vissuto alle Bahamas. È come se chi ha causato l’Olocausto fosse stato libero e avesse beneficiato di una vita di piaceri, perché quella di Malatto è una vita di piaceri. Fa male e ti senti impotente. L’idea di venire in Italia e fare la denuncia lì è anche per fare in modo che i vicini sappiano chi è quest’uomo, perché gli italiani sappiano a chi hanno dato la cittadinanza, e se lo stanno proteggendo che sappiano chi stanno proteggendo.