Horacio Czertok
Czertok è un cittadino argentino naturalizzato italiano. Dopo il colpo di Stato del 1976, in Argentina la cultura non allineata viene ritenuta un nemico da annientare. Jorge Videla lo dice chiaramente, il Programma di riorganizzazione nazionale dichiara guerra non solo a chi ha scelto la lotta armata ma a qualsiasi cittadino che diffonda idee “contrarie all’Occidente e alla civiltà cristiana”. La compagnia teatrale di Czertok è così costretta all’esilio e dopo varie esperienze si è stabilita a Ferrara, dove il direttore dell’Ospedale Psichiatrico lo coinvolge nell’azione che porta alla legge 180 di Franco Basaglia e alla chiusura dei manicomi. Nel febbraio del 1978 però ritorna in Argentina, dove ricomincia la sua opera di agitazione culturale. A ottobre dello stesso anno però, davanti a circostanziate minacce di morte, deve lasciare l’America latina con la famiglia. Il Teatro Nucleo viene così ri-fondato definitivamente a Ferrara dove, nei locali dismessi dell’OPP, il Teatro Nucleo crea un nuovo progetto teatrale che ben presto diverrà conosciuto al grande pubblico internazionale, con spettacoli evento che riusciranno a raggiungere decine di migliaia di spettatori in tutta Europa.
Nella primavera del 2019 la giuria della XXVI edizione del Premio Nazionale Franco Enriquez ha assegnato il più alto riconoscimento per la categoria “Teatro Contemporaneo di impegno sociale e civile” a Horacio Czertok. Per la giuria, il suo teatro “è una drammaturgia in itinere, in un continuo divenire, un vortice di vita che coinvolge e sconvolge”.
Dunque, il miglior drammaturgo italiano è un rifugiato politico.
Sono un rifugiato politico, questo è ontologicamente vero, ma sono stato qui come uno che faceva un lavoro e voleva essere pagato per il lavoro che faceva. Non ho voluto mai avere nessuna facilità: pagare sempre il mio affitto, pagare sempre la scuola dei miei figli, e così via. E questo qui è stato possibile.
Com’è stato ripiantare la sua creatura dall’altra parte del mondo?
Quello che chiedevo era continuare a fare il teatro che facevo in Argentina, come se fossi in Argentina, e questo in qualche modo qui è stato possibile: il lavoro, il tipo di teatro che facevamo allora là, un teatro impregnato di urgenze sociali – nel senso che il teatro è uno strumento straordinario, come lo è da tremila anni nella nostra cultura occidentale – ci sembrava un tremendo spreco, una tremenda ingiustizia, che fosse lasciato nelle mani delle classi borghesi che se n’erano impadronite per farne un adorno, un divertimento e punto. Invece ci sembrava che il teatro invece avesse questo potenziale.
A febbraio del 1974 in Argentina viene rapito e torturato, cosa succede?
Vengo preso dalla AAA, ma questo si viene a sapere dopo, anche perché quando vengo sequestrato, una mattina di febbraio del 1974 in una “Falcon” verde, qualcuno telefona all’ufficio della comune Baires e dice: “Siamo la Triplice A, abbiamo preso Horacio Czertok, che è il vostro rappresentante esterno, lo teniamo per interrogarlo, non fate niente se lo volete vedere vivo”. E quindi gran trambusto, la comune si inabissa, la metà dei compagni abbandona. Io riappaio qualche giorno dopo molto malmesso, diciamo così. E quindi c’è un grosso momento di dibattito, la comune in quel momento decide di tornare in Italia dopo una grossa tournée che avevamo fatto, riceve un finanziamento esterno importante. Quindi eravamo una trentina di persone e noi diventiamo un gruppo di minoranza. Noi decidiamo no, che non possiamo andare, che è una sconfitta, che ancora si poteva continuare a combattere. Io personalmente non me la sentivo, mi avevano dato una legnata di una di quelle che non si dimenticano… avevo la sensazione che sarei morto di tristezza in Italia.
Provate a resistere, fino a quando?
Fondiamo il Teatro Nucleo e duriamo altri due anni, fondiamo una casa editrice, apriamo una rivista, facciamo spettacoli…. continuiamo la nostra attività. Notiamo il clima che si rarefà sempre di più, bombe di qui, bombe di là, ma in realtà nessuno si rende davvero conto, questo notiamo. Andavamo a fare spettacoli nelle fabbriche occupate, nelle mense, il teatro non è un’attività che si può fare clandestinamente, quindi eravamo nel mirino, chiaramente, avrebbero potuto farci secchi in qualsiasi momento.
Nel mezzo arriva il colpo di Stato.
Nel 1976: noi siamo in Italia quando c’è il golpe e a quel punto non possiamo più tornare, e torniamo all’inizio del 1978 con l’idea che si poteva ancora lavorare, pensa te. Il golpe, gli sgherri… era stato fatto in modo tale che non c’era questa percezione. A ottobre, con il mundial de futbol che tutti pensavamo “vabbè, si fermeranno”, e invece è stato il momento più duro. A ottobre stavamo organizzando una importante festival teatrale con la municipalità di Buenos Aires, la sottosegreteria di cultura e l’ambasciata di Danimarca. Pareva tutto apposto, quando il sottosegretario mi dice che c’era il comitato militare per la cultura che aveva bisogno di alcune precisazioni. “Il comitato militare per la cultura?!?” Boh. Si va lì, due signori ben vestiti, con cartelle sul teatro, con tutti i nostri articoli: “Qua la compagnia che pensate di portare in Argentina è sovversiva”, carattere transitivo… “abbiamo bisogno di un supplemento di indagine… tornate fra quattro giorni”. “Tornate fra quattro giorni?” Io in quel momento esco di lì, telefono alla mia compagna di allora… telefono all’ambasciata italiana dove avevamo contatti e da lì sono stato via 14 anni.
Che Italia avete ritrovato?
Sai, noi avevamo lasciato l’Italia nel ’73: una tournee fantastica, con Lotta Continua. Eravamo amici di Adriano Sofri, era il grande momento. Eravamo una comune marxista anarchica, argentina come il “Che”, facevamo teatro rivoluzionario… abbiamo inaugurato 22 circoli “Ottobre”, da Rovereto fino a Siracusa. Giravamo insieme con la comune di Dario Fo. L’11 settembre poi il golpe il Cile… il 12 noi avevamo una premiere antimperialista, che si chiamava “Washington Washington”, commissionata da Lotta Continua, dal comitato Vietnam. Ti puoi immaginare cosa è stata quella sera… Dovevamo farla all’Arsenale di Milano, l’abbiamo finita al palazzetto dello Sport: 10mila persone. Era una cosa incredibile, un paese così, ma già nel ’74 era completamente cambiato. C’è il momento del cambiamento, no? Potere Operaio passa alla clandestinità, Lotta Continua rimane in bilico, deve prendere le decisioni… Quindi cosa fai, ti rifugi nell’intimità? Non lo so. Questo succede alla comune, quando, scappando dall’Argentina arriva qui, pensa di ritornare in quel paese lì, che nel frattempo non c’era più. E quindi affonda, sprofonda, in una crisi politica potentissima: non possono tornare più in Argentina ma non possono nemmeno stare qui con un progetto culturale e ideologico che non si regge da nessuna parte.
Serviva nuova linfa, insomma, e arriva l’incontro con Franco Basaglia.
Sì, era il ’78, eravamo a Milano, dei compagni ci mandano a Sassari e lì incontriamo di nuovo Franco Basaglia che avevamo conosciuto in Argentina, perché fra le cose che facevamo in Argentina era lavorare al manicomio di Buenos Aires, al “Borda”. Lì facevamo un progetto teatrale, eravamo molto avanti. E c’era stato Franco, con una serie di conferenze che faceva al tempo, sulla sua idea di riforma psichiatrica. Quindi ci incontriamo, con lui c’era il direttore del manicomio di Ferrara che ci dice: “A me serve gente come voi. Io ho portato i teatranti come ha fatto Franco a Gorizia, ma loro si mettono lì, vogliono fare il loro spettacolo e non gliene frega niente della riforma psichiatrica, invece voi…” e quindi ci porta a Ferrara e noi dal nulla entriamo in questa straordinaria avventura della riforma psichiatrica italiana. Chiudiamo il manicomio di Ferrara, con il teatro, con la gente, con i matti fuori… per noi era un’occasione straordinaria.
La dittatura in Argentina è finita nel 1983, ma avete deciso di restare qui, perché?
A parte che c’erano questioni tecniche, i tizi che mi hanno preso erano ancora lì, sai, non volevo trovarli in giro, ma qui ormai avevo la mia famiglia; i figli che crescono, come fai a riportarli là, e dove? Sono figli di qui. Detto questo: il teatro non ha patria. Io sono apolide, la mia acqua naturale è la Grecia di Pericle dove si inventa il teatro, e si inventa lì perché c’è la democrazia. Il fatto che io sia argentino, italiano, è poca cosa. La mia patria è là dove posso. Di fatto la mia patria ora è in carcere, da 15 anni è lì che trovo uno scopo. Un antropologo che si chiama Franz Boas dice a un certo punto: “la mia provincia è il mondo”. Adesso lavoriamo in carcere, con lo stesso scopo dei manicomi, da 15 anni, lo scopo è quello lì: chiudiamo le carceri. Ma il teatro non ha risposte, non è il compito del teatro. Il compito del teatro è semmai aiutarci a farci fare domande, qui e ora.