Hugo Sing Chuan

Intervista a – Hugo Sing Chuan
Scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Marco Mastrandrea

Nella parte meridionale della Pampa, alle porte della Patagonia argentina, c’è un’enclave che ha un rapporto particolare con l’Italia. È la città di Bahìa Blanca, 550 km a sud ovest di Buenos Aires. La popolazione è un esempio tipico della composizione demografica della Pampa argentina: luogo del periodo coloniale che nella seconda metà del XIX secolo sperimentò una crescita demografica massiva, dovuta allo stabilimento di immigranti europei dell’epoca. Per questa ragione attualmente la stragrande maggioranza della popolazione della città è composta di argentini discendenti da europei, tra i quali predominano gli italiani. Bahía Blanca è infatti gemellata con la città marchigiana di Fermo poiché da lì provengono molti dei suoi abitanti.

Già prima dell’avvento della dittatura militare, durante il governo di Isabel Peron, la Triplice A agiva in questa parte del paese più che in altre. Ogni notte guidati da un dirigente corporativo di nome Rodolfo Ponce, uscivano in auto, la chiamavano la “Portavivande”, per seminare il panico fra i dissidenti. L’intelligence militare possedeva diversi edifici in città che durante la repressione fu considerato il centro delle operazioni. Vi vissero Astiz, Acosta, Massera, Scilingo, tra i più famosi repressori. In città era molto diffuso un quotidiano, “La Nueva Provincia”, che è stato, secondo la testimonianza di Scilingo, uno degli ideologi del colpo di stato del 1976 e di chiara ideologia nazista. Una delle riviste più note durante l’era AAA proveniva dalle sue macchine da stampa, come Cabildo ei suoi proprietari erano i proprietari della più grande casa editrice nazista dell’America Latina con sede a Buenos Aires. Il rapporto CONADEP accusa questo giornale di incoraggiare omicidi, sparizioni e ogni tipo di violenza criminale in quella città, avendo sempre raccolto le false versioni fornite dall’AAA o dalla Marina.

Con la dittatura a Bahìa Blanca sorse un centro di detenzione particolarmente efferato, la “Escuelita”, distrutta a fine regime per eliminare la prova dei crimini commessi al suo interno.  Questo centro di torture e omicidi si trovava dietro il Comando del V Corpo d’Armata che, durante la dittatura militare, aveva giurisdizione su tutta la Patagonia argentina. Nel giugno del 2011, dopo molte difficoltà, sono iniziati i processi contro alcuni militari facenti parte di questo corpo, e ha preso via la lunga strada di verità e giustizia che passa anche dal Processo Condor di Roma.

Hugo Sing Chuan è un esule in Italia, attivista per la Casa Latinoamericana della Versilia e fa parte del coordinamento della “24marzo”, l’associazione che dall’Italia si occupa del coordinamento dei familiari delle vittime nei vari processi ai repressori. È arrivato in Italia nel 1976 da Bahía Blanca, dove è nato. Tanti suoi amici sono stati vittime della repressione e del terrorismo di stato, fra cui una persona a lui molto vicina: l’adorata moglie. 

 

Come la tua normalità è stata sconvolta? 

Sì, se possiamo parlare di normalità, nel senso che il golpe di stato del 1976 viene a sconvolgere la normalità democratica del Paese. Io avevo un pubblico impiego all’università, vengono prese tutte queste istituzioni e veniamo soppiantati da autorità militari. Nel nostro caso tutto ciò è iniziato un po’ prima del golpe, un anno prima le autorità militari ci hanno soppiantato e da allora hanno fatto il buono e cattivo tempo. E nel nostro caso eravamo impiegati e siamo stati esonerati nel 1975 con delle motivazioni che fanno riferimento a delle leggi antisovversive. Di fatto in questa prima lista di esonerati su 50 nostri compagni ci sono state 4 vittime del terrorismo di stato, di cui uno è ancora desaparecido.

Com’è stato il tuo arrivo in Italia? 

Sai, quando puoi uscire da una situazione di pericolo certamente arrivi bendisposto in un nuovo Paese. Io mi lasciavo dietro una tragedia. Me ne sono andato con una nave italiana; non ero l’unico, eravamo in tanti, con un biglietto da crociera, ma eravamo quasi tutti con un biglietto di sola andata. E fu quello il momento per parlare liberamente fra di noi di quello che stava accadendo nel nostro Paese. All’arrivo, quasi quasi uno ancora non sa di essere in libertà, di potersi muovere liberamente. Io, vittima di questa persecuzione così stretta, non lo potevo credere. Era novembre e a Firenze per la prima volta ho visto la polizia municipale. Avevano le giacche di colore blu, guanti bianchi, un caschetto e mi si sono rizzati i capelli per la paura. Addirittura mi facevano paura gli omini dell’Anas che avevano l’uniforme color grigio-verde. Li vedevo per la strada e pensavo: “Ah Dio del cielo!” È quella cosa che ti porti dietro e ci metti un po’ a sganciarti e a riabituarti alla normalità. 

 

Quali sono i tuoi sentimenti per il processo contro il Plan Condor? 

Non posso che aspettarmi bene dal processo anche perché sono memore dei processi che in precedenza sono stati celebrati in Italia nei confronti dei militari argentini. In quel caso, come in questo, questi processi sono stati molto utili per abbattere le leggi d’impunità dei paesi sudamericani. Ognuno di questi paesi europei, la Francia quando ha condannato Astiz, la Spagna con il principio di giurisdizione universale, hanno coadiuvato per demolire le leggi di impunità sudamericane. Pensate che in una città così difficile come la mia, Bahía Blanca, dove abbiamo quasi 300 fra vittime e desaparecidos, e stiamo parlando di una città relativamente piccola – all’epoca contava 200mila abitanti – la camera federale di Bahia Blanca è stata la prima a dichiarare la nullità di queste leggi. Fino a quando le leggi di impunità sono state definitivamente sciolte e si sono cominciati a svolgere i processi. Se ne svolti 6 a Bahía Blanca, il primo nel 2011. E questo è un modo di ottenere giustizia e di ottenere la verità. Una verità che per tanti anni è stata tenuta nascosta e viene fuori in forma di giustizia. 

 

Come attraverso l’arte si rappresenta l’assenza di una persona? 

Rappresentare gli oggetti personali appartenuti alle persone scomparse ha un valore fortissimo. Perché quello che si voleva fare era eliminare quella persona, farla sparire nel nulla, far sparire il loro corpo. E rappresentando gli oggetti appartenuti a questa persona si dimostra che c’è stata effettivamente una persona, che è esistita. I morti non parlano, non possono parlare. Mi ricordo le parole di una poesia di un grande poeta argentino Juan Gelman, che parlano di un compañero scomparso, della morte di Emilio Jáuregui.

[..] donde al final se disolvieron / las banderolas banderitas / con que cada uno quiso / apoderarse de su vida / apoderarse de su muerte / como si su vida y su muerte / no fueran de la luz la sombra / de los dos álamos que alan / en todo pájaro del páis / o del país que alado alaba / en su corazón que creía […]