Miguel Santucho

Intervista a – Miguel Santucho
scritta da Alfredo Sprovieri, video realizzato da Erica Canepa

Miguel Santucho è arrivato in Italia quando non aveva compiuto nemmeno due anni. Suo padre, Julio, esule in Italia, è riuscito a ricongiungersi con lui e con suo fratello maggiore dopo il colpo di Stato del 24 marzo del 1976 e dopo che a giugno sua madre incinta era stata rapita dai golpisti. Ha scoperto in giovanissima età la storia della sua famiglia e il fatto che sua madre è desaparecida. Da quando è tornato in Argentina continua a vivere la vita di militanza che ha avuto la nonna, una abuela de Plaza de Mayo, con lo scopo di continuare a cercare il fratello (o la sorella) che potrebbe essere nato nel centro di detenzione e rapito dai militari. 

 

Qual è la sua storia?

Sono nato a ottobre del ‘75 a Buenos Aires. Il 13 luglio del 1976, quindi quando avevo meno di un anno, mia madre è stata sequestrata e da quel momento integra la lista dei desaparecidos argentini della dittatura. Io in quel momento avevo solo nove mesi, sono stato portato in salvo da mia nonna che è venuta a prenderci nell’appartamento in cui è stata rapita mia madre con mia zia Manuela Santucho e un’altra compagna che si chiamava Alicia D’Ambra. Erano tutte e tre e militanti del Prt, Partito rivoluzionario dei lavoratori argentino. Di quel momento vissuto insieme a mio fratello che è di un anno e qualche mese più grande di me e mio cugino Diego – il figlio di Manuela, lui è del ‘75 però del mese di febbraio, quindi sei mesi più grande di me – io ovviamente non ho ricordi, quello che so è quello che sono riuscito a strappare dai racconti di mia nonna. 

Cosa le raccontò di quel giorno?

Che io piangevo molto quando lei è arrivata, che si sentivano i miei strilli da lontano, mentre mio fratello e mio cugino Diego stavano dormendo. Poi siamo andati con via con mia nonna e io sono stato qualche mese con mia nonna, fino che poi una compagna del Prt che chiamavamo Susy è venuta a prenderci e a portarci all’estero per incontrarci con mio padre. Diciamo che i miei primi ricordi sono del 1980, quando avevo 5 anni, e coincidono con i primi giorni che siamo arrivati in Messico. Parlavo italiano in quel momento e però non ricordavo perché, dopo ho saputo della storia dei nostri primi anni, dal 1977 al 1980. Comunque, i miei ricordi iniziano nell’80 ed è tutta la storia che è successa in Messico, dove ho iniziato la scuola con ragazzi della mia età che erano anche figli di compagni del partito, poi mi ricordo l’episodio in cui mio padre è andato in prigione: noi lo andavamo a trovare, e quindi ricordo tutti i viaggi nei mezzi, mi ricordo sempre il momento in cui arriviamo a visitare mio padre e suonava la campanella di avviso per i visitatori. 

Poi siete tornati in Italia, quali sono i suoi ricordi della nuova vita italiana?

Diciamo che siamo tornato in Italia quando mio padre e la sua compagna, la madre di mia sorella, non erano più militanti del partito e ci siamo trasferiti a Roma. Io finché non sono tornato per la prima volta in Argentina non ho avuto una gran coscienza della mia storia familiare; più che altro sapevo tutto ma non significava un granché per me, non riuscivo a metterlo in rapporto alla realtà.  In Argentina sono andato a trovare mia nonna, lei stava con abuelas de Plaza de Mayo: da sempre sapevo che mia madre era scomparsa, che era una desaparecida, ma non capivo se non poche cose. Ero anche piccolo, era normale. Però quell’anno ho visitato con mia nonna le abuelas e mi ricordo che mentre stavo nella sala dove loro stavano riunite, stavo cercando la foto di mia madre tra i libri e il materiale che loro avevano, finché in un momento ho trovato una foto di mia madre, una di mio padre e in mezzo una foto in bianco che diceva “nata a febbraio del ‘77 in qualche centro clandestino”. Da quel momento ho capito che quella persona che stavano cercando era anche mio fratello o mia sorella e sono tornato con queste informazioni in Italia senza capire bene cosa dovevo farne, cosa davvero rappresentava questa storia. Però, nonostante questo, ho capito che la mia situazione è una situazione che non era l’unica, era una situazione che nella mia famiglia purtroppo già si conosceva, perché la maggior parte dei miei cugini anche loro avevano genitori desaparecidos e c’era il sospetto che qualcuno di loro potesse avere altri fratelli, che le donne fossero incinta quando sono state prese. Erano tutte cose che si dovevano dimostrare, ma diciamo che in quel momento era una storia che diventava comune, anche se tragica. Quindi mi sentivo in qualche maniera accompagnato, in qualche maniera sapevo che non era una cosa così difficile da capire. 

 

Crescendo come ha fatto a fare i conti con questa tragica verità?

Il punto principale, che poi ho capito col tempo, è che non ci sono sicurezze. Che non avevo possibilità da solo di riuscire a sapere cos’era successo a mia madre, se aveva avuto davvero realmente un figlio o no, se c’era stato qualcuno che l’aveva visto… tutte queste informazioni erano tutte cose che erano fuori dalla mia portata, però sapevo che in Argentina si stavano facendo queste domande, stavano cercando queste risposte e anche per il grande impatto che rappresentava per me sapere che la mia storia non era solo mia, ma aveva un contesto familiare molto simile, io sentivo il bisogno di poter ricostruire quella storia, di poter conoscere i miei cugini e di poter vivere e capire meglio quello che era successo a mia madre e a tutta la mia famiglia. Quindi un po’ tutta l’idea di tornare in Argentina è stata molto presente, l’ho sempre vissuta come un conto in sospeso, come qualcosa che dovevo in qualche maniera prima o poi affrontare.

 

Quando ha capito che la sua vita in Italia non le bastava più? 

Il mio quotidiano in Italia cambia in rapporto con la mia crescita. Io vivevo a Roma, nella Garbatella, e dopo 15 anni quando già iniziavo ad essere adolescente, iniziavo già a sentire il richiamo dell’Argentina. C’è stata anche la situazione che mio padre e mia madre si sono divorziati e perciò dopo un po’ mi sono dovuto scegliere una parte pensando anche a cosa volevo della mia vita. Quindi questa idea di tornare in Argentina e questa cosa che mio padre dopo essersi divorziato aveva un progetto di ritorno, un po’ mi ha portato dalla parte di schierarmi con l’idea di tornare qui dove siamo oggi, a Buenos Aires. Comunque ho avuto un rapporto con l’Italia molto bello, molto intenso. Anche un principio di attività politica, ma appena compiuti 17 anni vengo in Argentina per la seconda volta e qui realmente mi succedono delle situazioni in cui sento il richiamo del paese, della mia storia, sento la necessità di andare avanti con questo progetto di ritornare ed è così che l’anno dopo, il 12 agosto del ‘93  torno definitivamente in Argentina con un viaggio di sola andata come dico io, perché realmente in quegli anni, soprattutto l’ultimo anno tra ‘92 e ‘93 in Italia mi sono successe un sacco di cose. Io dico sempre che l’Italia è stata la prima volta di tutte le esperienze più importanti della mia vita: il primo amore e le prime paure, le prime grandi decisioni e tutto è successo prima in Italia e in quel senso diciamo senso che la mia identità è molto italiana, però realmente questo recuperare la mia storia mi ha portato in Argentina totalmente convinto di essere nel posto giusto

 

Come vive ora in rapporto alla storia della sua famiglia?

Io sono molto impegnato adesso nella ricerca di mio fratello e siamo qua in Argentina in un momento molto critico per questo, perché le nostre nonne, la maggior parte di loro, sono già morte e ci sono nonne che sono molto grandi, molto anziane. Quindi sono gli ultimi anni utili per riuscire a trovare questi ragazzi, sono ormai uomini e donne ormai, che sono stati rapiti e sono vissuti senza sapere la loro vera identità, senza sapere chi sono realmente. Sono quindi gli ultimi anni utili per poterli far incontrare con questi parenti più grandi come le nonne e gli zii. Ovviamente io spero che riuscirò a trovare mio fratello o mia sorella più presto possibile, ma so che il processo di ritrovarsi e di potersi conoscere sono processi molto lunghi: fino a 9 anni fa, quando era viva mia nonna ed era un’integrante delle abuelas ha portato avanti questa ricerca di tanti anni e io l’ho accompagnata per quello che potevo, ma realmente dopo che lei è morta ho sentito il bisogno di dare una continuità a questa ricerca e di rafforzare l’idea che quello che stiamo cercando non è più mio fratello o mia sorella, ma uno dei trecento che mancano e quindi tutti i trecento. Abbiamo questo giuramento: fino a quando non troveremo l’ultimo, continuiamo a cercarli.

 

Parlava di un momento in cui la sua consapevolezza è diventata una missione, vuole parlarcene? 

Dopo che sono tornato dall’Argentina sentivo la mia storia diversa, quando sono stato qua in una manifestazione de los secundarios, dei liceali, ho visto i ragazzi fare dei graffiti sul muro: scrivevano “Santucho vivo”, scrivevano il mio cognome con la stella rossa e per me sinceramente ha avuto un impatto terribile scoprire che la mia storia – quella che io raccontavo agli amici come se fosse qualcosa a cui realmente neanch’io credevo, un racconto più che qualcosa che potessi trasmettere – quando l’ho vissuto in carne propria, quindi quando ho capito cosa rappresentava, cosa volesse dire, sono cambiato. Da quell’anno l’ho trasmesso in un’altra maniera, adesso per me rappresentava qualcosa di molto importante tutto questo, al punto di andare via scegliere un’altra vita. 

 

In Argentina come è andato avanti il suo processo di militanza politica?

Sono arrivato in Argentina nel ‘93 e nell’anno ‘96 ricorrevano i 20 anni del golpe del 1976 ed era una delle manifestazioni più grandi. Pochi mesi prima di quello mia cugina era venuta a sapere che si stava organizzando un gruppo di figli dei desaparecidos assassinati durante la dittatura e che ciò includeva anche gruppi di esiliati eccetera. Entrai in “Hijos”, che aveva quattro gruppi: figli di desaparecidos, esiliati, assassinati o prigionieri politici durante la dittatura. Io sinceramente mi sono avvicinato con un po’ di curiosità, ma allo stesso tempo senza compromettermi troppo. Quello che invece ho trovato realmente è stato un gruppo di informazione di un potenziale enorme, nel quale la nostra la nostra energia era ciò che sentivamo l’uno per l’altro, era la colla che faceva funzionare il tutto. Noi per la nostra storia di vita magari abbiamo dei momenti in cui pensiamo che sono solo nostre queste storie, che questi fatti sono successi solo a noi, e invece nel poterli condividere con gli altri, nel poterci confrontare riuscivamo a capire che eravamo parte di una storia più grande. Ho vissuto anni molto intensi fino al 1999, quasi fino al 2000 militando in Hijos, in quanto noi ci siamo proposti di creare una nuova voce, di creare una nuova forza in Argentina per riuscire a far giustizia.

 

Qual era il vostro obiettivo politico?

Che i militari responsabili del genocidio non rimanessero impuniti. In quel momento, quando noi siamo arrivati diciamo, erano liberi, erano stati amnistiati perciò quelli che erano stati condannati insieme a molti altri dei quali sapevamo le loro responsabilità anche se non erano stati ancora giudicati erano liberi. Il torturatore di mia madre sta camminando accanto a me, il responsabile di aver rubato mio fratello o sorella possono essere nella casa accanto… la sola idea del convivere con l’impunità ci faceva alzare la voce contro questo atteggiamento e credo che noi siamo riusciti realmente a rimettere in discussione certe cose, soprattutto con l’attività sociale e culturale. Io mi ricordo che una delle attività più importanti che avevamo era l’escrache, cioè identificavamo i responsabili del genocidio, soprattutto quelli già giudicati e condannati,  quindi con dati concreti sula loro colpevolezza sapevamo dove vivevano e volantinavamo, parlavamo con i vicini, con l’obiettivo di saldare l’idea che quella persona era un torturatore, uno dei responsabili del genocidio e perciò doveva essere trattato in quella maniera e non come un buon vicino o come un vecchietto simpatico. Era un torturatore, né più né meno, e così andava trattato, almeno quello.

Ha mai fatto un bilancio di questa scelta di vita?

Ho sentito il bisogno di ritornare alla militanza, a questo tipo di vita, perché realmente una parte di me importantissima cercava di riuscire a portare avanti queste richieste e questo bisogno di giustizia e di recuperare identità. Quando mi sono riproposto di riprendere questo lavoro in prima persona in questo ruolo un po’ più protagonista nella ricerca, mi sono trovato che mia nonna era grande, che i miei nonni erano già un po’ troppo grandi, e c’era adesso un po’ più di spazio. Quando sono tornato in Argentina il primo gruppo che ho conosciuto è stato il gruppo Abuelas, però era un momento in cui le abuelas erano molte e si erano costruite tutto un gruppo di specialisti, di professionisti nelle diverse aree, per poter portare avanti il loro lavoro, quindi non c’era molto spazio. Almeno io non capivo quale poteva essere il mio spazio, però avevo necessità di fare il mio percorso particolare. Quindi dopo sono arrivato in un punto della mia vita che sono tornato alle origini e considerato che era molto più importante il ruolo che potevo dare nella ricerca di mio fratello e attraverso di lui, di tutti i nostri fratelli che mancano. La ricerca dei nietos, dei nipoti, per me è una particolarità che ormai fa parte della mia attività quotidiana.