Pedro Guerra Figueroa
La decisione di non arrendersi era stata presa e comunicata dal presidente già da settimane. Perciò, l’11 settembre del 1973, quando la Marina inizia a sollevarsi a Valparaiso, sanno tutti cosa fare. Sono le sei del mattino quando la notizia raggiunge l’entourage di Salvador Allende: quello della Marina è chiaramente un diversivo, i traditori guidati da Pinochet puntano al cuore dello Stato, a Santiago del Cile e al Palazzo della Moneda. Bisogna arrivare prima di loro, sta per arrivare l’inferno, anche se tutto per strada sembra tranquillo. A parte le solite tre macchine di scorta presidenziale, che correvano all’impazzata, c’era una camionetta con un mitragliatore punto trenta, con a bordo gli uomini del Gap. Sono le sette e trenta, ma ancora la situazione sembra sotto controllo, la città sta svegliandosi con i suoi ritmi di sempre, non sa ancora che verrà sconvolta per sempre da quella mattina.
La residenza presidenziale di Via Tomas Moro dista 15 chilometri dalla Moneda, il cordone di auto, correndo all’impazzata, lo percorre in meno di dieci minuti. Allende prova senza successo a contattare le forze armate, sono le 7 e 30, intanto, all’entrata del palazzo si raduna un pugno di uomini, armati di poche granate, qualche lanciarazzi, pistole e mitragliatori. Sono chiamati a difendere il Palazzo del governo contro un esercito intero, che intanto sta arrivando per annientarli. Alle 9 e 10, l’ultimo di una serie di discorsi alla radio, il presidente si rivolge al popolo con queste parole:
«Amici miei, sicuramente questa sarà l’ultima opportunità in cui posso rivolgermi a voi. La Forza Aerea ha bombardato le antenne di Radio Portales e Radio Corporación. Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori».
Dopo una serie di combattimenti armati, alle 11 iniziano i bombardamenti dell’aviazione, Allende muore, la Moneda si sgretola sotto il peso delle bombe e gli ultimi resistenti rimasti nel palazzo sono costretti alla resa. Nel frattempo, progettando l’eliminazione di tutte le forze di opposizione, i militari guidati dal generale Augusto Pinochet trasformano lo Stadio Nazionale di Santiago in un grande campo di concentramento. Secondo un calcolo obbligatoriamente approssimativo, circa 130mila individui vennero arrestati nei tre anni seguenti in Cile, con il numero di desaparecidos che raggiunse le migliaia nel giro di pochi mesi. Moltissime di queste persone sono state uccise: alcune lanciate ancora vive dagli aerei in stato, altri scomparsi nel nulla. I bambini degli oppositori vengono rapiti e affidati a sostenitori del regime. Gran parte dei perseguitati erano stati sostenitori di Allende.
Ma c’è stato un ultimo disperato tentativo per cambiare questa storia con un gruppo di uomini che tentò di strappare il presidente Allende al suo destino. In una delle udienze del Processo Condor a Roma lo ha raccontato dopo tanti anni un testimone diretto, Juan Bautista Osses Beltran, all’epoca dei fatti nella scorta personale del presidente cileno insieme a un ragazzo di origini italiane, Juan Josè Montiglio. “Ci fu un momento in cui si cercò la possibilità di rimuovere Allende dalla Moneda, prima del bombardamento. Si stava sviluppando un piano per allontanare il presidente dal Ministero dei Lavori Pubblici attraverso la porta di Calle ‘Morandé 80’ e da lì al Banco del Estado”.
Lì, nella banca pubblica cilena, ad attenderlo c’era un gruppo di militanti della giovanile socialista, un pensionato di Parma quel giorno era fra loro. Si chiama Pedro Guerra Figueroa, ha 69 anni e dalla fine di quell’anno vive in Italia. Pochi mesi dopo il colpo di Stato dei militari riuscì a salvarsi entrando nell’ambasciata italiana nascosto nel bagagliaio di un’automobile, e in pochi giorni trovò asilo politico nel nostro paese. Ripensa spesso a quel giorno.
Era una mattina buia, quella del colpo di Stato.
Sì, era tutto molto molto caotico, perché non si sapeva cosa sarebbe successo. Io e alcuni compagni ci chiudemmo all’interno del Banco dell’Estado, ad aspettare. Non sapevamo come sarebbe finita, perciò abbiamo fatto uscire presto tutto il personale ordinario dal palazzo, poi verso le undici sono iniziate le prime sparatorie nel palazzo presidenziale, dove c’erano le guardie del corpo di Allende e i militari. Dopo poco lo stesso successe anche da noi, buttarono giù la porta della banca con il bazooka. Entrarono sparando all’impazzata, e anche lì ci fu una risposta di fuoco. Verso le 12 sentiamo il bombardamento, e dopo un silenzio totale. A quel punto eravamo già stati arrestati, e da quel momento non ho saputo niente di quello che stava accadendo al Cile.
Dove ti portarono?
Prima al Ministero della Difesa, che si trova vicino. Lì ho passato tutta la notte, il giorno dopo mi hanno portato in periferia, in una caserma militare, incappucciato. Dopo un altro giorno in caserma fui destinato allo stadio Nazionale di Santiago: entro in quell’inferno il 14 di settembre del 1973 e ci rimango fino al 22 ottobre, quando lo stadio deve essere sgomberato per una partita della nazionale che poi non si terrà.
Cosa hai visto nello stadio?
Ho avuto subito l’impressione che facessero sul serio. Ci fanno scendere da una jeep e poi camminare per il corridoio dello stadio, dove c’era una porta semiaperta. Mi sono fermato a guardare e ho visto una montagna di cadaveri, un militare mi urlò di proseguire, sto zitto e riprendo a camminare, ma appena posso mi giro e dico a quello dietro di me: ‘Qui stanno ammazzando la gente.
Perché vi avevano portato lì, che tipo di trattamento vi riservarono?
Militavo nella gioventù socialista, avevo diversi incarichi prima del colpo di stato. Allo stadio c’erano tanti compagni della mia sezione. Ti chiamavano dall’altoparlante, poi ti portavano in un posto che si chiama ‘el Caracol’, una specie di locale doccia, femminile tra l’altro. Lì si torturava, e quando lo facevano alzavano il volume degli altoparlanti con la musica. Ogni tanto si sentiva qualche colpo di arma, qualcuno ritornava tutto rotto e qualcuno non tornava proprio. Lo facevano scomparire, era morto o sarà stato portato da qualche altra parte, a noi non lo dicevano di certo. Il tempo lì dentro lo passavi così, aspettando che toccasse a te.
Sei stato torturato?
Mi facevano assistere alle torture, che è anche peggio. È una tortura psicologica: sono stato male per tantissimo tempo per questo.
Che tipi di torture hai visto?
Lì dentro visto la ‘Parrilla’, che è un letto con quelle molle di ferro che adesso non ci sono più. Lì davano la corrente, con scosse che ti devastano, poi c’era un bidone pieno di escrementi in cui ti buttavano dentro e poi ovviamente ti picchiavano, tutto il tempo. Volevano che qualcuno tradisse, e a volte è avvenuto, ma io posso anche arrivare a capirli: ho visto cosa facevano per farli parlare, e non lo facevano solo a militanti come noi. Io l’avevo messo in conto, ma vederlo fare anche a bambini e donne, questo lo trovo ancora oggi inaccettabile.
Come sei uscito da lì?
Un giorno mi dissero che ero libero, ma mi consigliarono anche di lasciare il paese, altrimenti avrei avuto conseguenze molto peggiori. Davanti allo stadio era pieno di gente che chiedeva se avessimo visto i loro cari, era uno strazio. Andai via con gli stessi vestiti con i quali ero entrato e sempre con quelli arrivai in Italia. Mio padre era emigrato da Scalea, in Calabria, così cercai di entrare all’ambasciata italiana e da lì arrivai a Roma, prima di essere destinato a Parma con altri tre compagni, che oggi non ci sono più. Io avevo in progetto di andare in Germania per lavorare, ma qui ricevemmo un’accoglienza enorme, ho trovato un nuovo lavoro, mi sono fatto una famiglia e non me ne sono più andato.
Sei mai tornato in Cile?
Sì, dopo 20 anni, e torno ogni due anni. Quando vado lì lo dico prima ad un’associazione e mi fanno incontrare i giovani allo stadio. La memoria è la cosa più importante, e noto che si sta perdendo. Tanti mi dicono che solo ora hanno scoperto che i propri cari sono stati reclusi lì.
Tornando alla mattina del golpe, rimpianti?
Il Cile di Allende era un sogno di noi giovani, che portavamo avanti da tanto tempo. Non solo socialisti e comunisti, anche i cattolici. La mattina dell11 settembre io avevo 22 anni, e insieme agli altri abbiamo provato a difendere questo sogno come potevamo, ma la verità è che non ci aspettavamo tutto quello che è successo. Solo una volta arrivato allo stadio ho scoperto che Allende era morto e che il piano della sua scorta per portarlo via dal Palazzo della Moneda era fallito. Qualche tempo prima c’era già stato un altro tentativo di colpo di Stato a Santiago, e noi sapevamo che in casi di emergenza quello sarebbe stato un percorso di fuga, ma a quanto pare qualcosa andò storto. So che hanno trovato un cancello sbarrato e che Allende ha ordinato a tutti di tornare indietro, e il resto purtroppo è storia. Lo aveva detto che sarebbe uscito solo da morto da quel simbolo del potere popolare, e lui era uno di parola.