Piero Di Monte
Piero Di Monte è nato a Caramanico Terme (Pescara) e vive a Verona. Sindacalista in Argentina, è stato sequestrato a Cordoba il 10 giugno del 1976, all’età di 25 anni. Fu portato al centro di detenzione “La Perla” dove finì anche la sua compagna, Graciela Esther Sosa, incinta di cinque mesi. Graciela è stata rilasciata nel giro di pochi giorni e il 15 ottobre di quell’anno ha messo al mondo Irma Carolina Di Monte, che vive e lavora in Italia. Piero invece ha trascorso quasi un anno a La Perla e un altro anno nel distaccamento di intelligence 141. È stato liberato nell’aprile del 1977 e nel 1978 è tornato nel suo paese d’origine. Ha deposto sia nei processi argentini che in quelli italiani, aiutando a ricostruire le tracce di molti desaparecidos.
Qual è la sua storia?
Mi chiamo Piero Di Monte, in realtà il mio nome vero è Piero Italo Argentino Di Monte, Piero per il 29 di giugno, Italiano perché in Italia e Argentino perché ero destinato ad andare in Argentina. Eravamo italiani in un seno di una realtà argentina, perciò nel mio nome i miei genitori hanno sintetizzato la mia storia.
Qual era la sua vita nel periodo del golpe militare argentino?
Quando siamo arrivati all’università, per me lì è stato uno scoppio di conoscenze. Io studiavo ingegneria, ma oltre ingegneria tutto quello che c’era attorno era un grande fermento, un grande subbuglio culturale in mezzo ai lavoratori e agli studenti che era legato a una situazione argentina drammatica. Abbiamo sempre vissuto sotto il cappello delle dittature militari, e man mano che avanzava il processo erano sempre più violente e lì nascono i primi passi della repressione in Argentina e ovviamente anche nascono i gruppi tipo i Comandi Libertadores de America le AAA eccetera eccetera. Io studiavo ingegneria e lavoravo in una fabbrica dove avevamo un sindacato che era potenza, avevamo una grande capacità di manifestazione anche se c’era molta repressione. Io ero leader di questo sindacato, solo che le AAA mi hanno minacciato, hanno tentato di sequestrarmi e da quel momento lì sono passato alla clandestinità. In questo passaggio uno pensa: “Ma guarda che mi deve succedere” e comincia radicalizzarsi, il mio pensiero è andato oltre e ho cominciato a capire che era necessario cambiare le cose. In quel periodo facevo parte di un grande movimento di resistenza militante politica rivoluzionaria che non accettava più che le cose continuassero così, solo che allo stesso tempo i militari si sono accorti che si era arrivato a un punto di rottura, che dovevano intervenire per preservare le cose e non cambiare, e così è arrivato questo colpo di stato che è stato cruento, e che noi abbiamo pagato pesantemente.
Coma cambiò la sua vita dopo il golpe?
In un controllo i militari con una lista chiamavano le persone che erano nell’auto e le facevano scendere, pensavo che in quel momento sarei finito detenuto, invece sbagliarono: il mio nome era troppo lungo così hanno cominciato dalla fine e un soldato mi ha fatto passare. Ecco lì sapevo che ero nelle liste e ho cambiato casa, sono nella clandestinità però facendo attività politica, ma era molto difficile capire cosa stesse accadendo perché andavi a un appuntamento e non c’era nessuno, la gente iniziava a scomparire, era tutto molto confuso. Poi il 10 di giugno, alle 4 del mattino, arrivano in centro città, in un luogo impossibile da trovare e c’è stato un momento di scontro fisico con i militari e quando mi sono svegliato sono stato picchiato, sono svenuto e mi sono risvegliato all’interno di un baule di una macchina, ero legato e fasciato da una coperta, così che quando si è fermata la macchina mi hanno preso, bendato e portato in un grande capannonne in un centro militare che si chiamava la Perla, sede del comando operativo dei gruppi speciali del distaccamento di intelligence 141 della città di Cordoba.
Cosa le accadde nella Perla?
Chiaramente il primo passo fu la tortura. Mi torturarono per conoscere l’attività politica. Usavano la tortura in maniera feroce, sono passato dalla prima tortura fisica: botte, cazzotti eccetera… all’attesa che arrivasse il torturatore per eccellenza, lo specialista. Era tutta gente formata alla Escuelas de las Americas a Panama, usavano torture che ti lasciano delle tracce per sempre. Loro usavano la Picana, cioè una rete di ferro alla quale ti legavano con un filo di ferro, e tutti abbiamo ancora i segni di quella tortura. Non solo ti massacravano di botte, se non parlavi ti toccava anche la corrente elettrica. C’era una che la chiamavano la “Margherita”, perché era la più delicata, 110 volt e dopo, se ti dovevano finire, ti davano la 220 volt. Io ho percepito entrambe le tensioni: la Margherita ti distruggeva la pelle, mentre i 220 volt ti piegavano in due, ti distruggevano. Era una cosa che ti toglieva il respiro. Questo succedeva in fondo: arrivavi, ti torturavano con ogni mezzo anche se il tuo corpo si ribellava. Per conto mio, avevo preso la decisione che era arrivato il mio momento, volevo essere coerente, ma la cosa più grave avvenne quando portarono Graciela incinta di Carolina, mi tolsero la benda e vidi che davano la corrente anche a lei, e lei diceva le stesse cose che dicevo io, era incredibile. E lì poi è successo un vuoto, mi hanno lasciato solo per ore, chiedevo acqua e mi davano acqua sporca sulla bocca, sono svenuto e mi sono trovato altrove, con una compagna d’infortunio che si è presa cura di me.
Aveva percezione di cosa succedeva agli altri detenuti?
Vedevo uncamion, che all’epoca chiamavamo Mercedes Benz. Ad un tratto ti chiamavano con un numero, il mio era 250, ti aiutavano ad alzarti e ti caricavano in questo camion, dopo un po’ si sentiva il rumore in lontananza, in mezzo a un silenzio profondissimo, stava tornando a caricarne altri. Ci dicevano che eravamo morti vivi, che stavamo vivendo un momento di sconto, eravamo convinti che alla fine ci avrebbero fucilati tutti. Ogni tanto ne prendevano tre, venivano uccisi e lasciati per strada, poi sui giornali leggevi: scontri con terroristi. Era questa la politica del terrore. Una parte rimaneva lì a questo scopo, un’altra parte li portavano non lontano di lì, in collina, nella Sierras de Cordoba, proprietà del terzo corpo d’esercito, loro venivano fucilati e sepolti sul posto.
Riuscivate a comunicare fra voi prigionieri, capivate cosa stava succedendo?
Cercavamo di creare una specie di memoria collettiva. Chi rimaneva doveva ricevere la massima informazione dagli altri e, nonostante l’isolamento, ogni piccola possibilità – nel bagno, nella doccia, o quando arrivava qualche guardia un po’ più umana – era utile per parlare fra noi, così raccontavamo tutto quello che sapevamo, in modo che, se uno sopravviveva poi aveva la memoria di tutti da portare ai parenti fuori di lì. Era questa la promessa.
Come si svolse la sua liberazione?
Io ero un italiano, e questo era il mio punto vincente. Graciela è stata liberata dopo poco, e il giorno dopo con mia sorella, professoressa di lingua italiana conosciuta nel consolato italiano, hanno presentato denuncia che ero scomparso. Così l’ambasciata italiana ha iniziato a mandare queste lettere al distaccamento d’intelligence, queste lettere si sono accumulate e un giorno mi hanno tirato fuori di là e io ho pensato: “Beh, è arrivato il mio momento”. Invece mi portarono al centro di intelligence davanti al colonnello che mi dice che mi lasceranno in libertà condizionata a patto che il consolato non faccia più pressione, così fanno con altri, per far vedere: “Ecco, vedete che è vivo?”. Alla fine, sono riuscito a tornare a casa e a farmi dare il passaporto, facendogli sapere che se mi succedeva qualcosa era colpa loro, perché in Italia c’era chi era aggiornato di ogni mio passo. Ho faticato per avere la mia carta d’identità, ed era pulita, perché ero stato preso clandestinamente. Così poi sono arrivato in Italia e dopo un periodo un po’ più lungo e arrivata anche Graciela.
Cosa vuol dire oggi ricordare quella storia?
Grazie alla nostra voglia di sopravvivere e raccontare siamo riusciti ad andare avanti, ora mi tocca raccontare cos’è successo e ogni volta che si apre questo cassetto si apre una storia che non è difficile da raccontare, è difficile da capire. Può capirlo solo chi lo ha vissuto, come diceva mio padre: “Chi non ha vissuto la guerra non può capirla”, ma chi la vive e rimane vivo per raccontarla sa davvero l’importanza della giustizia, dello stato di diritto, della pace. La cosa più importante è questo, la memoria attiva: non tanto per ricordare quel passato, ma per superarlo.
Cos’ha provato a ricostruire questa storia in tribunale?
Ritrovarsi in un’aula dove, a sinistra della mia sedia c’erano tutti i responsabili non è stato facile. Quando ho visto su Internet la prima presentazione del giudizio ai militari, ero in fabbrica in quel momento e ho cominciato a vomitare. Era una cosa troppo forte, perciò per me la cosa più importante era andare ad affrontarli, e quando mi hanno chiesto di riconoscere i responsabili di tutto quello che era successo a Cordoba, concretamente nella Perla, mi sono alzato, mi sono messo davanti a loro e ho cominciato a nominare uno a uno, per come li conoscevo io, li ho riconosciuti quasi tutti, e questo è stato il mio primo recupero di dignità, essere lì e dire: “Sono stati loro”. Eravamo uno davanti all’altro e io sapevo di essere importante per la condanna, ero uno, ma in realtà tutti quelli che non c’erano erano coloro che sono stati con me in quegli anni. Così ho parlato di tutti loro, gente speciale, disposta a dare tutto per un domani migliore. Non è una esagerazione, era davvero una gioventù meravigliosa.