Suor Geneviève Jeanningros
A Buenos Aires, nel 1977, tra i militari qualcuno sghignazzava quando si nominavano le monjas voladoras. Si rideva delle monache volanti, chiamate così perché gettate in mare da un aereo della Marina. È la storia della morte di Lèonie Duquet e di Alice Dumon, due suore francesi sequestrate e torturate nel dicembre del ’77 dall’esercito della dittatura civico militare per aver supportato e aiutato un gruppo delle madri di Plaza de Mayo. In fuga dalle pressioni del governo francese, Emilio Massera, capo della Marina, ordinerà di inscenare un finto sequestro delle suore per mano dei Montoneros per poi liberarsi dei corpi con quelli che venivano chiamati voli della morte.
A scomparire insieme a Lèonie Duquet e Alice Dumon è l’intero gruppo della chiesa di Santa Cruz di Buenos Aires, luogo in cui si riunivano clandestinamente le madri: Esther Ballestrino, María Ponce, Azucena Villaflor – ovvero le tre fondatrici di Madri di Plaza de Mayo e Angela Auad, Remo Berardo, Raquel Bulit, Horacio Elbert, José Fondevilla, Eduardo Horane e Patricia Oviedo.
Nella lista inizialmente figurava anche il nome di Gustavo Niño, un ragazzo che partecipava alle riunioni fingendo di essere un familiare di un desaparecido. In realtà, era il falso nome di Alfredo Astiz, un infiltrato del Grupo de Tareas 322, un gruppo specializzato in operazioni illegali sotto il controllo dell’ESMA.
Solo dopo quaranta anni di cui cinque di processo si avranno le prime condanne in Argentina. Alfredo Astiz sarà condannato all’ergastolo per i reati di omicidio, tortura e violazione dei diritti umani commessi durante gli anni della dittatura militare, in particolare oltre l’omicidio delle due suore, sarà condannato anche per l’uccisione di Azucena Villaflor e del giornalista Rodolfo Walsh.
Una mattina di dicembre, l’abbraccio di Astiz all’esterno della chiesa ad alcune delle attiviste, risulterà decisivo per segnalare ai suoi colleghi chi sequestrare. Soprannominato “l’angelo biondo della morte”, la nipote di Lèonie Duquet, Geneviéve non riesce a non chiamarlo Giuda. Anche Geneviève è una suora e il suo impegno verso gli ultimi nasce dall’incontro in gioventù con sua zia. Da tanti anni abita in una roulotte nel retro del Luna Park di Ostia, in un accampamento con i giostrai e le loro famiglie. Suor Geneviève ha quasi ottanta anni, profondi occhi blu e un sorriso giovane e timido. La sua roulotte ha poche cose: un fornelletto, tanti libri e fogli sparsi e un materasso sottile per terra. Il resto della stanza è impegnato da una grande croce di legno dove ospita chi nutre il desiderio di pregare.
Chi era tua zia Léonie Duquet?
Léonie era la sorella di mia madre, una persona che ha fatto tanto per la nostra famiglia. Era la più piccola di tanti figli, nel ’39 entra nelle suore delle missioni straniere e già nel ’49 parte per l’Argentina e per altri viaggi umanitari. Ho avuto modo di conoscerla meglio quando venne nel ‘62 ad abitare a casa nostra in Francia per aiutare mia madre che si trovava paralizzata.
Che tipo di persona era?
Viveva per gli altri, mi incantava la sua gioia e il suo coraggio. Ha vissuto in Argentina con i Mapuche, ha dato sostegno ai malati di lebbra, ha viaggiato molto con la Caritas. È sempre stata al fianco dei più poveri.
Cosa ha fatto una volta tornata in Europa?
Ha insegnato molto in Italia e in Francia. Quando con il concilio del ’71 la Chiesa si apre al mondo, sceglie di insegnare la catechesi e diffondere il verbo del Signore. Ma dopo un po’ ha deciso di ripartire per l’Argentina dove ha prestato aiuto nei quartieri poveri di Buenos Aires fino a quando ha potuto.
E poi cosa è successo?
Ha iniziato ad avere diversi problemi. Sai se tu sei un persona impegnata con i più poveri sei considerata sovversiva per forza di cose. La Bibbia è un libro sovversivo predica l’amore e l’aiuto per i poveri, fa cadere i potenti dal trono. E Léonie era consapevole di essere ricercata e pedinata.
Perché? Cosa faceva?
Léonie aiutava le madri di Plaza de Mayo, erano persone disperate che avevano visto scomparire i propri figli. Non poteva abbandonarle e non era sola, con lei c’erano altre suore a supportare le madri. C’era suora Yvonne che era stata incarcerata per una notte e al momento del rilascio i militari le avevano intimato di tornare in Francia; c’era la suora Alice Domon che insieme a Léonie era al fianco delle madri nella Chiesa di Santa Cruz dove si riunivano in segreto a Buenos Aires. Lo schema era questo: le madri entravano per l’ultima messa del giorno, discutevano sul da farsi, dormivano nelle stanze della chiesa per la notte e al termine della prima messa del giorno successivo, facevano ritorno nelle proprie case.
Come le hanno scoperte?
Nel gruppo delle madri si era infiltrato Alfredo Astiz, fingendosi il parente di una persona scomparsa. Era biondo, carino, diceva che suo fratello era stato catturato e da allora non aveva più sue notizie e voleva ritrovarlo. Poi, però, si è comportato come Giuda. Tra l’8 e il 10 dicembre del 1977, Léonie, Alice e un gruppo di madri sono state rapite dalle forze di sicurezza della dittatura. Mia zia per la precisione è stata catturata nella casetta in cui viveva, alcune versioni dicono che l’hanno portata via violentemente mentre altre versioni riportano che l’hanno portata via con un inganno, ovvero che sua sorella stava male e che l’avrebbero accompagnata in ospedale. Non posso dire come sono andate veramente le cose perché non lo sappiamo. Sono ancora tante le cose che non conosciamo di questa storia.
Cosa succede dal momento della sparizione?
Oggi sappiamo che sono state portate all’ESMA dove le hanno torturate con l’obiettivo di conoscere i nomi delle altre persone che partecipavano al gruppo delle madri. Il problema è che Léonie e Alice erano francesi e il governo francese chiedeva spiegazioni ed esercitava una pressione diplomatica per avere delle risposte, quindi, presumo che le abbiano fatte sparire velocemente, a quanto pare una settimana dopo il sequestro.
Come le hanno fatte sparire?
Le hanno sedate, spogliate, messe su un aereo della Marina e poi lanciate in mare. Sono i voli della morte. Sai, quando ti lanciano da quell’altezza, il mare diventa come acciaio. Il corpo è stato ritrovato pieno di fratture, il mare ha rigettato i corpi sulla spiaggia di Santa Teresita a 400 km dal luogo della sparizione. A ritrovarle un gruppo di pescatori nel dicembre del ’77. I corpi sono stati messi nelle fosse comuni del cimitero locale.
Come hai scoperto che era il corpo di tua zia?
Con il governo di Néstor Kirchner c’è stata la volontà di fare chiarezza e quindi c’è stata la possibilità di aprire le fosse comuni a Santa Teresita. Dagli studi svolti, si ipotizzava fosse il gruppo delle madri, visto che erano donne giovani fino a un massimo di 30 anni, poi c’erano altre madri tra i 50 e i 60 e il corpo di mia zia. Dal tipo di ossa si è ipotizzato che fosse il gruppo delle madri sparito nel maggio del ’77. Il corpo di Alice Dumon non è stato mai ritrovato.
Cosa hai provato?
Mio fratello non mi aveva detto di aver fatto il test del DNA, una volta conosciuto il risultato mi ha detto al telefono “sai penso che per zia non c’è più niente da sperare”. Dopo 20 anni, sembra assurdo, ma credevamo di ritrovarla viva. Non ci credevo, mi dicevo non è possibile che hanno ritrovato le ossa. Ho realizzato quanto fosse importante avere una parte del corpo di mia zia. Quando hai il corpo puoi svolgere un funerale, seppellire la persona, piangerla.
Dove l’avete sepolta?
C’è stata una discussione, c’era chi voleva riportarla in Francia, ma noi, la sua famiglia abbiamo deciso di seppellirla in Argentina, intorno alla chiesa di Santa Cruz, insieme alle altre persone ritrovate di quel gruppo che era sparito. Tra i corpi sepolti del gruppo c’è anche Esther Careaga, professoressa di chimica dell’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. Ed è stato proprio Bergoglio ad autorizzare la sepoltura su richiesta del parroco di Santa Cruz.
Hai partecipato ai funerali?
Sì, erano tantissime le persone presenti. La chiesa era gremita, erano presenti alcuni preti, mi dicevano le sorelle che erano principalmente parroci nei quartieri poveri e nelle baraccopoli. Della Curia non era presente nessuno. Mi sono domandata come fosse possibile che dopo 27 anni di dolore, ancora non avessero capito quanto sia importante essere vicini alle persone che hanno sofferto. Ricordo di aver pianto per tutto il viaggio di ritorno.
Sei tornata in Argentina per il processo e ti sei ritrovata nella stessa aula di Giustizia con Astiz, l’infiltrato che verrà condannato all’ergastolo, che ha di fatto sancito a morte tua zia e le altre. Cosa hai provato?
Sono andata quattro volte in Argentina. È stata una grande emozione ripercorrere i luoghi e parlare con le persone che hanno conosciuto mia zia. Astiz era a pochi metri da me, pregavo per lui. In quell’aula ho cercato più volte il suo sguardo, nella testa mi ripetevo “pentiti Astiz, sei ancora in tempo. Hai sbagliato, riconosci che è stato un male”. Al momento della difesa dei militari, tutti dicevano di aver difeso la patria. Avrei voluto sentir dire semplicemente “ci siamo sbagliati”.
Qual era il tuo rapporto con il futuro pontefice?
Nel settembre del 2005, gli ho scritto una lettera un po’ dura in cui esprimevo la sofferenza mia e degli altri parenti per l’assenza dei membri della Curia ai funerali. Sono andata a San Pietro e l’ho inserita nelle casse della posta vaticana, non volevo che si perdesse, all’interno avevo lasciato il mio numero di telefono. La sera stessa, l’allora cardinale Bergoglio mi ha telefonato e mi ha detto “grazie sorella per la sua lettera, volevo dirle che non sono stato indifferente, avevo permesso la sepoltura intorno alla chiesa e pensavo che bastasse”. Ma io non sono tanto tenera – ride – ero ancora arrabbiata. Gli ho risposto che ci voleva una presenza. In quel momento il cardinale è rimasto in silenzio per poi dire “grazie sorella! È così che si fa tra fratelli e sorelle”. Poi quando è stato eletto Papa mi sono detta “mamma mia! Adesso è il mio Papa e io sono una piccola sorella, gli devo voler bene. Mi devo convincere!”.
Ci sono stati altri momenti di confronto?
Sì, e pian piano ho iniziato a scrivergli lettere, diciamo, più morbide. Un giorno gli ho dato delle foto dell’Argentina e delle foto del Luna Park di Ostia. E lui mi ha risposto che gli avrebbe fatto tanto piacere venirci a trovare.
È venuto a trovarvi?
È stata una follia. Era il 3 maggio del 2015, sapevo che sarebbe giunto nella chiesa del Buon Pastore, a due passi dal Luna Park. Ho pregato la sicurezza e lo staff, ripetevo che bastava attraversare la strada per raggiungerci. Ma per motivi di sicurezza non era proprio possibile. Un’ora prima dell’evento, mi chiama il comandante della Gendarmeria vaticana dicendomi che il Papa vorrebbe visitare il Luna Park. Quindi abbiamo sparso la voce, addobbato a festa l’area con palloncini e cartelloni ma niente, non era proprio possibile per motivi di sicurezza.
Un peccato.
Non finisce qua, non mi sono persa d’animo. Ho detto al comandante che non era accettabile, tutti i bambini erano lì, i giostrai si erano impegnati tanto. Sarebbe stata una delusione troppo grande. Di colpo, lui mi dice “dove abitate?” e gli ho mostrato la roulotte. Dopo averla vista ha deciso che quello sarebbe stato il luogo dove il Papa doveva andare. Ovviamente era l’unico posto che non avevamo preparato per l’occasione. Il Papa è entrato da una porta secondaria, abbiamo pregato in silenzio davanti la croce di legno nella roulotte. Poi è uscito e ha benedetto tutti i bambini presenti. È stata una giornata incredibile.