Walter Oscar Calamita
“A 18 anni pensi a uscire con gli amici, con la tua ragazza, non pensi di finire in una cella di due metri per uno dalla notte al giorno”. Walter Oscar Calamita la chiama l’Odissea di famiglia ed è un ex detenuto politico, arrestato insieme al fratello ventunenne e sua cognata prossima al parto. È l’8 novembre del ’74, sono trascorsi due giorni dalla proclamazione dello stato d’assedio, un’ascia sfonda la porta di casa Calamita. La famiglia Calamita è di origine marchigiana ed è proprio in Italia che troverà rifugio e solo nel 1982 potranno ritrovarsi nuovamente insieme.
Qual è la tua storia?
Sono un ex prigioniero politico del periodo antecedente la dittatura argentina, sono stato liberato nel gennaio ’76, poco prima del colpo di Stato, grazie all’articolo 23 della Costituzione argentina che prevede il diritto di opzione, vale a dire che in caso di stato d’assedio e tu sei considerato un nemico della sicurezza nazionale hai due possibilità: restare in carcere o abbandonare il Paese. In quella fase il governo provava a ridurre le pressioni internazionali, quindi decise di stilare una lista di novanta persone che potevano ricorrere all’articolo 23, con grande fortuna tra i nomi c’era il mio e così mi sono ritrovato catapultato da un giorno all’altro in Italia.
Che tipo di città era quella in cui sei cresciuto?
La città da dove provengo è Bahía Blanca, al sud della provincia di Buenos Aires. È una città con una forte presenza di organizzazioni militari e repressive: c’è una forte componente della marina militare; è il luogo dove Emilio Eduardo Massera organizza il colpo di Stato del ’76; è la città in cui è stanziato il quinto corpo dell’esercito; il luogo in cui c’è anche un distaccamento dell’aviazione. Per il resto si viveva di commercio, non c’era una forte componente operaia, era un punto di approdo per le merci provenienti da Buenos Aires.
Come era la tua vita e quella della tua famiglia?
Non ero di certo uno studente modello, ero stato bocciato e siccome non volevo ripetere l’anno, provavo a recuperare frequentando la scuola notturna, tra i banchi eravamo tutti lavoratori, la mattina invece lavoravo nell’attività di famiglia. Io e mio fratello avevamo un patto: io avrei lavorato negli anni in cui lui era iscritto all’università e nel momento in cui avrebbe iniziato a lavorare e guadagnare, io avrei potuto studiare e diventare magari avvocato per poi mandare in pensione i nostri genitori. Avevamo un piano per il futuro che è stato sconvolto dal giorno alla notte.
Cosa accadde?
È iniziata l’Odissea di famiglia. Mio fratello viene arrestato insieme a sua moglie che era all’ottavo mese di gravidanza, mentre l’attività di mio padre sconvolta. A quell’età pensi che saresti andato a scuola e non di ritrovarti alle due di notte in commissariato e poi gettato per terra in una cella.
Cosa hai provato in quel momento?
Appena entrato in cella mi sono addormentato come se non fosse successo nulla. Il giorno dopo, all’ora in cui di solito mi preparavo per andare a scuola, ho avuto una crisi isterica. Mio fratello che era due celle accanto la mia mi ha detto di farmi forte perché questa cosa non sarebbe durata un giorno soltanto. In quel periodo mia cognata era in cella e aveva da poco rotto le acque.
Come hai resistito in carcere?
In carcere organizzi la tua mente e provi a sopravvivere. Cerchi persino di essere allegro e felice. La cosa che dava più fastidio ai repressori era la tua allegria. Il problema però è che non riesci a immaginare una vita oltre, i tuoi progetti vengono castrati.
Come sei cambiato con questa esperienza?
Sono cresciuto molto velocemente, ho conosciuto tanti padri politici, ho trovato consigli su come non crollare psicologicamente, ho sviluppato il mio percorso ideologico e il mio attaccamento alla causa. Ho incontrato dei grandi maestri.
Chi erano?
Ne voglio ricordare uno in particolare: Jorge Fernandez, padre di due gemelle. È stato uno dei miei più grandi maestri. Nel gruppo dei detenuti politici eravamo in tre a soffrire di asma: io, Jorge e un cileno. Eravamo riusciti a ottenere una bomboletta di Ventolin per alleviare la sofferenza, erano crisi d’asma disperanti, era dura resistere. Ci passavamo la bomboletta di continuo, c’era grande solidarietà, un giorno però Jorge non ha retto e si è impiccato. Lo porto da sempre nel mio cuore.
Poi è arrivato l’esilio.
Ricordo l’abbraccio dei miei genitori in aeroporto. Mio padre diceva sempre che eravamo molto simili ed era vero e mia madre era molto attaccata ai figli ma quel giorno mi dissero che avrei dovuto arrangiarmi perché loro dovevano lottare per mio fratello che era ancora in carcere. A 19 anni mi sono ritrovato in un paese che amavo, mio padre era marchigiano, ma non parlavo una parola di italiano e poi non sapevo quale accoglienza avrei ricevuto e cosa ne sarebbe stato della mia vita. Dopo oltre quaranta anni lo posso dire: ce l’ho fatta.
Cosa hai fatto una volta arrivato in Italia?
Quando arrivi in esilio provi a incontrare la tua comunità, anche se devi essere molto attento anche se non sei nel tuo Paese di origine. Ho incontrato quadri politici molto preparati che mi hanno formato e mi hanno spinto a battermi non solo per mio fratello ma per tutti i detenuti e poi per tutti i desaparecidos. Il primo anno l’ho trascorso a Roma, poi ho girato l’Italia per altri 4 anni come attivista, la nostra è una causa continua e non ho mai smesso in questi 40 anni.
Cosa chiedi oggi?
Mi sono sempre domandato se fossi un desaparecido sotto i ravanelli – diciamo così noi argentini – cosa chiederei ai sopravvissuti. Penso che chiederei di non essere dimenticato e quindi io ho 30 mila fratelli da portare sempre con me. Io sono un privilegiato perché sono sopravvissuto quindi la mia missione è ricordare e resistere per tutti quelli che non ci sono più.